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Dieci assunti sintetici in tema di partecipazione

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1) “Partecipare”: sembrava essere una delle parole d’ordine degli anni Sessanta e Settanta, quasi un sinonimo di democrazia. Dall’inizio degli anni Ottanta assistiamo prima ad una sua crisi, come parola e come cosa, e poi, con un’accelerazione rapidissima, alla sua quasi scomparsa o radicale metamorfosi, ancora una volta sia come impiego verbale, sia come pratica concreta. Ma cresce la consapevolezza che, senza effettiva partecipazione, non si dà democrazia.

2) Di questa consapevolezza c’è traccia esplicita nella Costituzione italiana: la partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politico, economica e sociale del Paese è una delle finalità perseguite dall’ordinamento. Perché essa sia “effettiva”, occorre la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che, di fatto, limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini. I “lavoratori” di cui al principio di eguaglianza sostanziale del secondo comma dell’art. 3 sono i lavoratori “situati” (e non i semplici astratti cittadini), vale a dire coloro che adempiono al dovere costituzionale del lavoro, inteso come attività o funzione che concorre al progresso mate- riale o spirituale della società. In un’epoca di grande trasformazione del lavoro, accentuata dalla digitalizzazione e dalle prospettive dell’intelligenza artificiale, rinnovare il nesso tra lavoro e partecipazione democratica è un’esigenza cruciale.

3) La rappresentanza politica è in difficoltà, da decenni, al pari di tutte le altre forme di rappresentanza (economica, sindacale, persino religiosa): non ci si fida più di chi sta al vertice, quale che sia. Si tratta di un risvolto del trionfante individualismo che, se da una parte potrebbe esaltare il protagonismo individuale, dall’altra ci rende sempre più soli e fragili, esposti all’invasione dei messaggi e alle logiche di algoritmi sconosciuti.

4) Alla crisi della rappresentanza si può porre rimedio in due possibili direzioni. La prima, nel senso di rafforzare il legame verticale con un capo, al quale delegare il governo della cosa pubblica: sinora, tutti i tentativi in questa direzione hanno prodotto effetti negativi, e talvolta la fuoriuscita dalla democrazia. La seconda, attraverso la sperimentazione di momenti partecipativi ricollegati alle forme usuali della democrazia, quella rappresentativa, quella diretta, quella deliberativa.

5) Fare entrare la partecipazione nella democrazia rappresentativa implica rinnovare i partiti politici, attraverso regole di trasparenza e di coinvolgimento nella definizione delle candidature, spazi alla dialettica interna. Implica altresì ravvivare la dignità del “parlamentare” (intesa come infinito del verbo) e del Parlamento, attività e luogo di confronto di idee e di impostazioni fondate su dati verificabili e sul gusto del confronto.

6) Anche la cosiddetta democrazia diretta (ad esempio, quella che si esprime attraverso il referendum, o sfruttando le possibilità della Rete) ha bisogno di essere irrobustita attraverso procedure di partecipazione, senza le quali essa, invece che “diretta”, rischia di essere eterodiretta, e dunque di ridurre, anziché accrescere, il coinvolgimento effettivo e consapevole del cittadino.

7) Ma è soprattutto sulla terza forma di democrazia, quella deliberativa, che va concentrata l’attenzione. Si tratta della forma più recente, e dunque più difficile da valutare. Nonostante il termine, il suo nucleo non consiste nel fare deliberare gruppi o assemblee di cittadini al posto delle istanze rappresentative o delle decisioni in via diretta, ma nel coinvolgere agorà casuali di cittadini e residenti attorno a temi e problemi di ambito prevalentemente locale e territoriale (tipicamente, gli ambiti della cosiddetta rigenerazione urbana), permettendo ai partecipanti di farsi un’idea informata e non aprioristica, e mettendo poi a disposizione del decisore pubblico il risultato di questo coinvolgimento. Dove sperimentata in forme corrette, ha dato in genere buoni risultati.

8) Come aiutare, culturalmente, questo irrobustimento del tessuto partecipativo? Una pista di riflessione potrebbe essere costituita dal richiamo alla teoria del dono, quale elaborata a metà del Novecento dal movimento antiutilitarista nelle scienze sociali: secondo questa prospettiva, donare è dare, ricevere, restituire. C’è un legame tra questa teoria e la partecipazione democratica. Come la prima, pure la seconda ha un’estensione triadica: anche partecipare è dare, ricevere, restituire. Dare: il proprio tempo libero, la propria attenzione, per farsi responsabilmente un’idea e per aiutare altri a farsela. Ricevere: nel dare, sempre si riceve, a meno che non si sia ciechi e sordi. Restituire: è la relazione gratuita che rende possibile tale circolarità. La riflessione sul carattere triadico della partecipazione può facilitare la strada alla sua pratica attuazione.

9) A livello di proposta contenutistica, il rafforzamento della democrazia non può che passare, ancora oggi, attraverso un rafforzamento di quello che, tanto tempo, il barone di Montesquieu chiamava le virtù politiche, che in particolare egli declinava come amore per l’eguaglianza e stile della sobrietà. Sono espressioni che, opportunamente ritradotte nel linguaggio contemporaneo, possono costituire la base per una nuova e rinnovata stagione democratica.

10) Anche la sinodalità, quando la si inquadri e la si viva nella prospettiva del dono, entra in questa dimensione triadica. Ma vi entra con una specificità: invece di essere un itinerario soltanto individuale, è necessariamente di gruppo, è un camminare insieme sulla stessa strada. Se si accetta quanto si è detto sulla analogia tra teoria del dono e partecipazione democratica, anche tra sinodalità e partecipazione è possibile allora costruire un’analogia feconda, ferme restando le diversità di piani e di ambiti. Su questa auspichiamo che la Settimana sociale di Trieste possa proseguire la riflessione. Il Meic, anche riprendendo il filo da quell’ormai lontano Progetto Camaldoli del 2008, può inserirsi in questa discussione: ad esempio, riprendendo quella proposta di un giuramento di fedeltà alla Costituzione da prospettare non soltanto agli immigrati, ma anche ai nativi diciottenni, così da rafforzare la cultura costituzionale e suoi valori-principi, al di là e al di sopra della contesa politica quotidiana.

Articolo a cura di Renato Balduzzi e Barbara Viscardi, del gruppo Meic di Alessandria, già pubblicato sulla Rivista “Coscienza” n. 1 del 2024 (SFOGLIA QUI IL NUMERO INTEGRALE)