Riportiamo qui di seguito la riflessione del professor Pietro Ramellini, del gruppo Meic Roma Sapienza, tenuta in occasione di un incontro del Meic Lazio dello scorso 31 maggio.
L’attuale situazione europea invita, ed in qualche misura obbliga, a formulare una proposta culturale o di cultura politica per sostenere e orientare l’azione più schiettamente politica e partitica.
Ho pertanto raccolto alcune idee cercando di sottolineare aspetti che ritengo urgenti, oppure questioni di cui non sento discutere a fondo. L’ordinamento dei temi ricalca le linee guida della “Lettera all’Unione Europea” stilata per conto della CEI e della COMECE in occasione della Giornata dell’Europa 2024. Inoltre, quanto segue risponde all’invito a riflettere su una possibile ‘Camaldoli europea’, avanzato in occasione del convegno “Il Codice di Camaldoli” tenutosi nel luglio 2023 nell’omonimo monastero.
La scommessa sta nel vedere se l’autore, un cittadino europeo largamente impreparato in scienze politiche, economiche e sociali, non possa – proprio per questa sua ignoranza – cogliere qualche spunto che sia per caso sfuggito a chi è immerso ogni giorno nella lotta politica sulla pubblica agorà.
Premessa
La Lettera all’Unione Europea inizia personificando e dando del tu a questa realtà di 27 paesi e 450 milioni di abitanti che hanno scelto di mettersi insieme.
Ora, chiunque intenda affrontare il tema dell’Europa, e al suo interno quello dell’Unione Europea, si imbatte subito in due difficoltà. La prima riguarda lo spazio: qual è l’estensione dell’Europa? Dove inizia e finisce, qual è il suo confine o la sua frontiera? Israele, la Santa Sede o la Russia ne fanno parte? Si pensi a questo proposito all’assetto variabile del Consiglio d’Europa, in cui gli stati entrano ed escono a seconda del rispetto di certi criteri, per cui a volte l’Europa finisce a Vladivostok, mentre altre volte Kant diventa un filosofo asiatico. La seconda difficoltà riguarda il tempo: quando è apparsa di fatto l’Europa? E quando gli europei ne hanno preso coscienza, quando hanno realizzato di essere europei? Ogni storia dell’idea di Europa è lì a dimostrare quanto ambigua e vaga sia questa idea, e quanto dipenda dagli orientamenti storiografici e ideologici di chi la propone o combatte.
Queste e altre difficoltà non devono però indurci a pensare che i geografi siano confusi o che gli intellettuali non sappiano nemmeno definire i termini che usano. Il fatto è che l’Europa non ha né un’essenza metafisica né il rigore di un concetto matematico; piuttosto, l’Europa e l’Unione Europea sono entità storiche, e come tali vanno trattate. Ecco perché occorre precisare, come fa la Lettera, il numero di paesi e di abitanti che di volta in volta ne fanno parte, e sottolineare che l’Unione Europea è il frutto di una libera scelta storica.
Un desiderio
La Lettera prosegue poi sull’onda del desiderio che l’Unione si rafforzi in un impegno comune. È un desiderio che ricorda e riecheggia il motto dell’Unione Europea: “unità nella diversità” (che dovrebbe diventare a breve “uniti nella diversità”, probabilmente per renderlo meno astratto e più incarnato nelle persone).
Visto che i desideri vengono dalle stelle, vorrei allora riprendere il mito, ambientato a Creta, della principessa fenicia Europa; non precisamente un mito fondatore, ma comunque un richiamo a due popoli, i Fenici e i Minoici, relativamente pacifici, in cui le donne godevano di uno status sociale piuttosto elevato, dediti al commercio e dunque all’incontro con l’altro, portatori di raffinate civiltà testimoniate ad esempio dai palazzi minoici e dall’alfabeto fenicio.
Inoltre, proporrei di introdurre o riconoscere tra i desiderata europei qualcosa come una ‘europia’ o ‘euriopsia’, rispolverando la tradizione etimologica per cui Europa significherebbe sguardo aperto e visione ampia.
La storia
Riassumendo il lungo cammino che ha condotto all’Unione Europea, la Lettera adombra una questione che si ripresenta ciclicamente, cioè quella delle radici dell’Europa.
Proviamo allora a rivitalizzare questa metafora, risalendo alle sue radici botaniche. Intanto si potrebbe discutere se le radici culturali e storiche dell’Europa siano a fittone o fascicolate, cioè uniche come nelle carote o numerose come nelle graminacee. In secondo luogo, si potrebbe arricchire la tipologia con altri casi, come ad esempio le radici tuberizzate, capaci di conservare le preziose risorse accumulate in passato; oppure le radici respiratorie, che riforniscono la pianta di ossigeno crescendo verso l’alto quando il substrato è asfittico; ma soprattutto le radici micorrizate, che instaurano simbiosi mutualistiche con altri organismi, e uniscono piante diverse in una comune rete ecologica. Purtroppo, non si può nemmeno dimenticare che per molto tempo le radici europee sono state di tipo austoriale, funzionali cioè al parassitismo nei confronti di altri organismi. Infine, ci si può domandare se i fattori più importanti siano le radici oppure il suolo da cui traggono nutrimento, la sua profondità e fertilità; in fondo, il seme che dà il cento per uno è quello che cade sulla buona terra.
Quanto all’oggi, se è vero che viviamo tempi di profonda crisi (anche se io tendo a pensare che ogni tempo abbia le sue crisi), allora dovremo guardarci da due estremismi tipici di tali epoche: da un lato l’idea di una palingenesi universale o di un’apocalisse finale, dall’altra il ripiegamento sui piccoli rifugi di nonna Speranza. Tenere fermo il timone tra questi due estremi, navigando con prudenza e costanza verso una maggiore convergenza europea, sembra la rotta più realistica e dunque più sapiente e prudente.
Il senso dello stare insieme
Nel considerare l’Unione Europea come un organismo vivo, la Lettera invoca la necessità che essa sia fondata su di un’anima europea. È il tema assai frequentato dell’identità europea, su cui vorrei avanzare tre riflessioni.
In primo luogo, l’identità europea si articola in una dialettica tra i limiti e il loro superamento. Spesso infatti si afferma che l’Europa è streben, tensione a spingersi sempre più avanti, a navigare come l’Ulisse dantesco, anche a rischio di naufragare. Tuttavia, Europa è anche senso del limite, pluralità di ambiti e dimensioni che si controllano, regolano e limitano a vicenda: meden agan, chiesa e impero, stato e mercato, diritti umani e potere statale, balance of powers, e così via; le esperienze assolute, anche quelle più estreme e disumane, in Europa sono durate poco. Mi sento perciò vicino alle posizioni espresse nel 2003 da Jürgen Habermas e Jacques Derrida, secondo cui il proprium dell’Europa non può più basarsi sui diritti umani o sul cristianesimo, visto che questi si sono ormai estesi fuori dai suoi confini. Piuttosto, tra gli elementi dell’identità europea troviamo il riconoscimento delle differenze (ad esempio con la pacificazione dei conflitti di classe attraverso il welfare state), la distinzione tra politica e religione, la ricerca di un ordine internazionale multilaterale e legale, la sensibilità ai paradossi del progresso (con il sospetto verso il mercato e la distruzione creativa, e con una valutazione da dialettica dell’Illuminismo del progresso tecnologico; in questo senso, un esempio recente è la pionieristica regolamentazione europea dell’Artificial Intelligence), l’importanza dello stato come potenza civilizzatrice e controllore del capitalismo, la tensione verso la giustizia sociale, la sensibilità per l’integrità fisica della persona (ad esempio con la scarsa tolleranza all’uso della forza contro le persone), l’addomesticamento del potere statale attraverso la limitazione reciproca delle sovranità, e una certa distanza riflessiva da sé stessi (intesa come capacità di mettersi nei panni degli altri, e soprattutto delle vittime, maturata attraverso le guerre e la decolonizzazione).
In secondo luogo, si può intendere l’identità europea come diversificata e stratificata. In tal caso, l’Europa potrebbe legittimamente e positivamente significare cose diverse per persone diverse, calibrate sui differenti livelli socio-culturali dei suoi abitanti. Avremmo allora un’Europa alla Erasmus per studenti universitari giovani e colti, un’Europa turistica per persone di mezza età, classe media e cultura media, un’Europa del calcio per i frequentatori di bar e pub, e così via. L’Europa in generale sarebbe il collante e l’hypokeimenon-substrato di tutte queste Europe particolari e del loro palinsesto; inoltre, essa sarebbe non solo segno e strumento di unione, ma un katechon capace di dilazionare quelle pulsioni neo-campanilistiche che sono in fondo i sovranismi e i nazionalismi. Si potrebbe obiettare che l’Europa si trasformerebbe così in una mera entità strumentale e funzionale; ma in fondo ciò non sarebbe del tutto sbagliato, perché le finalità ultime sono piuttosto la pace, la convivenza e l’unione degli europei. In ogni caso, non è necessario contrapporre uti e frui, l’utilità materiale e la fruizione anche simbolica e spirituale dell’Europa.
In terzo luogo, l’identità europea non può che essere clinale. Spesso si sente domandare quale affinità possa esserci tra un finlandese e una siciliana, o sostenere che uno svedese è culturalmente più vicino a un norvegese che ad una cipriota. Proporrei allora di introdurre il concetto di un cline europeo, per cui i siciliani sono affini ai romani, che a loro volta sono affini agli emiliani, e così via fino a giungere ai finlandesi.
La guerra
La Lettera si chiede quali vie creative percorrere per costruire nuovi patti di pace. Questa domanda dovrebbe trovare gli europei preparati a rispondere e orgogliosi di esserlo, se è vero che l’Unione Europea è stata insignita del premio Nobel per la Pace nel 2012.
Forse il primo punto da rilevare è che si può essere europeisti per amore (se non dell’Unione, almeno della pace che ha sinora preservato) e si può essere atlantisti (nel senso ristretto di sostenitori della NATO) per necessità. Una necessità storica, dunque suscettibile di mutare e persino cessare a seconda delle situazioni contingenti.
Nel frattempo, permane la questione di come porsi di fronte ai conflitti che insorgono non solo ai confini dell’Europa ma in tutto il mondo. Tra il pacifismo integrale e l’interventismo diretto, il ripudio della guerra presente in alcune Costituzioni europee porta a privilegiare, in relazione a conflitti esterni all’Unione Europea, piuttosto il sostegno logistico, l’aiuto umanitario, le operazioni di intelligence e un’azione diplomatica determinata e corale. Un’altra via percorribile è quella della cultura: pensiamo ad esempio all’effetto dirompente che potrebbe avere una riflessione a partire da Guerra e pace condotta insieme da giovani israeliani e palestinesi, o un’esperienza sul tipo della West Eastern Divan Orchestra tra musicisti russi e ucraini. Quanto all’apparato militare in senso stretto, al di là (o al di qua) di incrementi delle spese si potrebbero razionalizzare e armonizzare le forze dei singoli stati, ad esempio in termini di coordinamento logistico e standardizzazione operativa.
Un tema che invece andrebbe fatto emergere esplicitamente, se proprio si vuol parlare di guerra mondiale a pezzi, è la «guerra» contro la criminalità organizzata. Si tratta di una sorta di guerra civile mondiale che benché tenda a diventare fredda, anzi proprio per questo, è sempre più subdola e continua a provocare devastazioni morali e materiali di enorme portata.
Quanto alla conflittualità interna all’Europa, considerato il retaggio storico delle nazioni europee le relazioni internazionali tra gli stati europei continueranno ad essere contrastanti e tese. L’importante è che si rimanga nell’ambito della contesa da governare politicamente, anziché pretendere di eradicarla con illusorie panacee o, peggio, ricorrendo all’ora delle decisioni irrevocabili.
Ruolo internazionale e nazionalismi
Giustamente la Lettera osserva che per incidere nel mondo l’Europa deve essere all’altezza della propria statura storica e culturale.
Va allora perlomeno superato il concetto aristotelico di una vita buona tutta giocata all’interno della polis autarchica; piuttosto, occorre vivere bene e aiutare gli altri a vivere bene. Pertanto, se da un punto di vista realista siamo ancora in una situazione di anarchia internazionale, ciò non toglie che l’Europa possa proporsi come partner in un cammino comune, condiviso e reciproco di populorum progressio. Chi ha davvero a cuore la propria nazione, o almeno l’interesse nazionale, non può rinchiudersi nel nazionalismo, ma deve aprirsi a una prospettiva come minimo europea, riconoscendo come minimo la necessità dell’Unione Europea.
Di qui apparirà subito la collocazione geopolitica dell’Europa con i suoi due assi di chiarezza cartesiana: quello longitudinale, lungo la direttrice USA-Cina (almeno finché l’Oceano Atlantico prevarrà sul Pacifico) e quello latitudinale, cioè l’asse Europa-Africa passando attraverso il Mediterraneo (i cui popoli rivieraschi potrebbero realizzare quei partenariati e quelle comunità di scambio e aiuto reciproco cui ho accennato sopra).
Per il resto, il ruolo geopolitico dell’Europa oscilla oggi, volenti o nolenti, tra essere una potenza regionale in un sistema globale neowestfaliano, fare da contrappeso agli USA o porsi come arbitro e mediatore tra le due superpotenze. Ma alle tre opzioni individuate da Henry Kissinger, cioè più NATO, più neutralità, o più alleanze mutevoli, andrebbe comunque aggiunta – ovviamente in senso pacifico – un’opzione à la Vittorio Emanuele II: nel mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti del mondo si leva verso di noi.
Valori europei e fede cristiana
Tra i valori che la fede cristiana ha trasmesso all’Europa la Lettera evidenzia quelli della vita, della persona e dei popoli.
Il primo valore andrebbe esteso dalla vita umana a quella di “tucte le Tue creature”, in una prospettiva ambientale che non va mai dimenticata. Si potrebbe allora risignificare il para oikos, cioè la prossimità della parrocchia alle case, in senso ecologico, vedendo le parrocchie vicine tanto alle case quanto all’ambiente. Istituendo anzi un parallelismo tra un para oikos profano e secolare, e uno sacro e religioso, l’Europa si ritroverebbe prossima tanto alla vita quanto all’ambiente, para bios e para oikos.
L’importanza delle persone e dei popoli, a prescindere dalle loro fedi e credenze, ci conduce poi a riconoscere e accogliere non solo il cristianesimo anonimo ma anche la compresenza in Europa tanto dei dimoranti nelle vecchie appartenenze religiose quanto dei nuovi cercatori.
Certamente è evidentela diminutio delle Chiese in Europa, anche se i conti si dovrebbero fare con i cuori e non con i certificati di battesimo. Tuttavia non si tratta solo di un cambiamento quantitativo: se dovessi azzardare una previsione, ipotizzerei un’ulteriore convergenza tra le comunità cattoliche e riformate europee; e se parallelamente si avvicinassero le comunità cattoliche e le varie denominazioni evangelicali e pentecostali ad esempio nell’Africa subsahariana, ciò accrescerebbe il divario religioso tra questi continenti. D’altro canto, il mondo ortodosso sembra orientato a ripiegarsi ancor più su sé stesso e ad isolarsi dal resto del cristianesimo mondiale. Ma come tutte le illazioni sul futuro, anche queste lasciano il tempo che trovano.
I migranti (e le migranti)
L’affermazione assai convincente della Lettera per cui occorre “stare bene per aiutare il mondo” va completata ricordando che si sta bene quando si accetta anche di essere aiutati dal mondo.
Il risvolto in tema di migrazioni è che ogni ospite è ambiguo ma necessario, e che ospitalità fa rima con umanità. Ma ancora non basta: bisogna sondare l’ipotesi che dall’incontro, dal confronto e anche dallo scontro tra residenti e immigrati possano emergere nuove culture e inediti sincretismi, come è avvenuto più volte nel corso della storia, ad esempio in Europa durante e dopo il declino dell’Impero Romano d’Occidente.
In ogni caso, il problema dell’Europa – per dirla con Lucien Febvre – è tuttora il problema del mondo, non solo perché l’Europa è ancora inestricabilmente legata ad esso dall’eredità coloniale e dall’egemonia otto-novecentesca, ma perché essa può intraprendere ancora e sempre un cammino sinodale con il resto dell’umanità.
Compiti e sfide
La Lettera contiene un lungo elenco di compiti che attendono l’Europa nel prossimo futuro, in vista di un grande rilancio del cammino comune. Anzitutto però viene sottolineata la necessità di un sentire condiviso e di un senso civico europeo. Per la crescita di una simile coscienza collettiva occorre di nuovo insistere sul perché e non solo sul come dell’Europa, ed adoperarsi per coniugare il calore meridionale alla serietà settentrionale.
Certamente è difficile motivare un continente sempre più stanco e ingrigito, un’Europa caratterizzata non tanto dagli anciens parapets di Arthur Rimbaud quanto da personnes âgées. Si tratta però di una situazione che è nuova in termini demografici anziché culturali, visto che la vecchiaia dell’Europa è un ritornello assai frequente (per non parlare del mondo, che senescit almeno dai tempi di Cipriano). In ogni caso, una nuova energia e (ri)animazione può venire non solo da un’immigrazione ben governata, ma da una più convinta educazione civica europea dei giovani. Ed è assolutamente chiaro che solo attivando un pathos collettivo anziché il mero logos strumentale l’Europa ha qualche possibilità di appassionare gli europei.
Molto si può fare non solo in termini di economie di scala, ma di processi socioculturali di scala. Ad esempio, manca ancora un vero spazio mediatico paneuropeo, oggi limitato a eventi come l’Eurovision Song Contest e le finali delle competizioni sportive. In particolare, si sente la mancanza di organi di informazione dalla circolazione realmente europea; le differenze linguistiche frenano sicuramente una fruizione larga e immediata. In ogni caso, una maggiore integrazione nel campo delle telecomunicazioni è urgente, magari avendo come modello la proiezione internazionale e la tradizionale governance indipendente della BBC. Analogamente, è necessario un più stretto interlacciamento delle infrastrutture, e soprattutto delle reti energetiche.
In campo economico e finanziario, il momento è quanto mai opportuno, in quanto la débacle del neoliberismo può lasciare spazio a nuove teorie, meno ossessionate dall’homo oeconomicus a una dimensione, nonché all’attuazione di proposte già disponibili. Un obiettivo a medio termine potrebbe essere la revisione della divisione internazionale del lavoro in vista di una capacità produttiva autonoma; ciò dovrebbe riguardare non solo i settori dual civili-militari, ma anche i beni essenziali (si ricordi il penoso caso delle mascherine durante la pandemia del Covid-19) e le commodity strategiche. La finanza dovrebbe bilanciare due opposte esigenze: da un lato, la stabilità monetaria e finanziaria richiede – dato l’intreccio tra mercati finanziari e capitale produttivo – l’omogeneizzazione delle macroeconomie e la stabilizzazione dei tassi di cambio con le divise extra-euro; dall’altro, occorre evitare che in nome della stabilità si pratichi una moderazione salariale sempre più spinta, con l’ulteriore impoverimento dei lavoratori. Una via promettente è come sempre rappresentata dal movimento cooperativo che, nonostante la sua difficile sopravvivenza in un ambiente spesso decisamente predatorio, mostra capacità di produzione e redistribuzione davvero ammirevoli.
L’economia chiama anche in causa l’ecologia, ma spesso in modo distorto. Infatti, uno sguardo ai documenti e alle proposte su clima e ambiente rivela quanto poco l’ecologia scientifica e la sensibilità etica contino di fronte agli aspetti economici e agli interessi strategici. Ora, se davvero si punta ad un approccio integrale anziché meramente tecnico alla crisi ecologica occorre ripensare le basi della stessa antropologia. Si tratta cioè di far emergere un eco-anthropos al posto dell’anthropos, e di concepire gli esseri umani in una relazione profonda con l’ambiente, anziché distaccati o alienati da quanto li circonda. La vita umana va vista e concepita come immersa nella realtà, aperta alla realtà e parte della realtà (una realtà che per i cristiani ha un fondamento agapico). Possiamo certamente discutere se si tratti di una nuova antropologia o del riemergere di antiche interpretazioni; ma anche in questo secondo caso si tratterebbe di una riscoperta più consapevole e fondata, di una concezione oltre che di una semplice visione del mondo, di una Weltanschauung insieme ad una Weltauffassung.
Quest’ultima sfida mi permette di sottolineare come la grande assente dalla Lettera, come pure dal recente dibattito elettorale sull’Unione Europea, sia la scienza, o almeno una considerazione positiva per il contributo che la scienza può offrire allo “star bene” in Europa e nel mondo. Tra l’altro, sembra esserci un certo parallelismo tra euroscetticismo e scetticismo nei confronti della scienza, che si potrebbe utilizzare come barometro per valutare le politiche ambientali dei vari gruppi parlamentari dell’Unione.
Le recenti elezioni
La Lettera invitava a considerare la recente tornata elettorale come un’occasione di rilancio del cammino comune europeo.
A livello politico occorre allora proseguire sulla strada delle innovazioni istituzionali che hanno caratterizzato la nascita e lo sviluppo dell’Unione, per quanto complesse possano essere: il mondo guarda ancora all’Europa come ad un laboratorio politico, ad un incubatore da cui potrebbero svilupparsi inedite soluzioni politiche. Del resto, le principali teorie sull’assetto giuridico-istituzionale dell’Unione Europea condividono l’idea che essa costituisca da un lato un genuino novum istituzionale, dall’altro un sistema ibrido e quasi una chimera. Ovviamente, come sa chiunque abbia frequentato un laboratorio scientifico, l’Europa è disordinata, e vi regnano il bricolage, l’alternanza di entusiasmi e sconforto, una certa dose di improvvisazione e un processo per prove ed errori; ciò non preclude tuttavia la possibilità di un cammino di convergenza graduale, l’unico che può proteggerci da salti nel buio e dal piccolo cabotaggio.
Una policy conseguente, che potremmo anche chiamare sinodalità europea (così offrendo un’ulteriore analogia tra l’esperienza cristiana e quella europea), potrebbe strutturarsi come un pragmatismo informato da principi, un pragmatismo cioè (moderatamente) realista e ispirato a solidi principi di natura quasi morale (come i cardini dell’identità europea individuati da Habermas e Derrida). Ad esempio, quando durante la recente pandemia i governi nazionali hanno delegato alla Commissione Europea competenze sanitarie che non le erano mai state riconosciute, si è irrobustito un assetto a più livelli intermedio tra quello comunitario (prediletto dagli europeisti, ovviamente, e centrato sulla Commissione) e quello intergovernativo (in cui il Consiglio dell’Unione ha forza preponderante). E questa situazione, che di nuovo richiama le concezioni poliarchiche dell’Unione, sembra la più rispondente alle attuali possibilità, anche per chi punti ad un assetto europeo federale.
Un nuovo umanesimo europeo
La Lettera si chiude ricordando il discorso di Francesco del 6 maggio 2016, quello del sogno di un nuovo umanesimo europeo inteso come “un costante cammino di umanizzazione”. Tuttavia, l’estrema concisione del riferimento fa sospettare che l’idea sia ancora tutta da sviluppare. A mio parere, la difficoltà maggiore sta nel concetto stesso di umanesimo europeo: mentre posso capire l’invito ad elaborare un Codice di Camaldoli europeo, perché si tratterebbe di un progetto politico positivo, l’umanesimo sembra possa essere solo umano, non europeo o tailandese.
Si possono allora prospettare alcune indicazioni di massima affinché l’Europa o l’Unione Europea tendano a questo umanesimo umano e umanizzante.
Intanto, occorre riconoscere e valorizzare la matrice complessa e stratificata dei paesi europei, e dunque lo stretto legame tra il loro passato locale e il loro futuro regionale e globale. In fondo, si tratta pur sempre dell’alternativa tra l’interpretare Babele come maledizione o benedizione divina.
È poi necessario riflettere se preferire, rispetto all’attuale assetto «architettonico» dell’Europa (grandi città, grandi nazioni, ma separate e spesso contrastanti, come il coacervo di edifici costruiti dalle archistar in certe metropoli), uno più «urbanistico» (con una maggiore integrazione a scala europea), in cui ovviamente «urbanistica» non significa asservimento dell’Europa ad astratti piani imposti dall’alto, ma rispetto dei luoghi, della storia e degli abitanti. Occorre infatti tener presente che un’eccessiva integrazione potrebbe limitare quel gioco di diversità e anche conflitti che ha mantenuto vive la storia e la cultura europea. Ecco perché è meglio parlare di unione (di diversi) anziché di unità (numerica) europea.
Infine, in attesa di una scuola che valorizzi il patrimonio mondiale dell’intera umanità, occorrerebbe sviluppare un serio sistema scolastico europeo, in cui proporre le ricchezze culturali di tutta l’Europa, contribuire alla formazione della coscienza civica europea, e camminare verso un umanesimo ecoantropico.
Come si vede, la messe è molta, e credo che su parecchi di questi punti si troverebbero schiere di operai disponibili a raccoglierla. Con sguardo aperto e visione ampia.