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Un’Europa nonviolenta è possibile

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di BEPPE ELIA

La chiara denuncia di papa Francesco sull’incremento delle spese militari in Europa è stata circondata da grandi silenzi mediatici e da qualche risposta polemica. E’ un segno del momento che viviamo e della difficoltà a pensare il nostro futuro sul piano internazionale in una prospettiva di confronto politico e di progressiva rinuncia alle armi come strumento di risoluzione dei conflitti.

“Il Papa fa il Papa” ha detto qualcuno, quasi che le sue parole, che attingono al cuore del Vangelo, appartengano ad una dimensione fuori del mondo, e non facciano i conti con la dura realtà dei rapporti umani e fra gli Stati. Ma così non è.

In questi giorni, come tutti credo, ho lungamente riflettuto sugli avvenimenti bellici, ben consapevole che l’aggressione della Federazione russa al popolo ucraino non abbia alcuna giustificazione, sia una guerra crudele, e debba essere condannata senza riserva. Come sono consapevole che il popolo ucraino deve essere sostenuto. Ma con quali mezzi? Confesso i miei dubbi al riguardo, e sono molto rispettoso sia di chi non vorrebbe inviare armi al presidente Zelens’kyj (posizione cui sono più vicino), sia di coloro che ritengono necessario aiutare la resistenza degli aggrediti anche sotto il profilo militare.

Al di là di questa complessa decisione, vorrei però sollevare lo sguardo dalla situazione attuale al futuro, perché questa guerra (comunque finisca) cambia gli scenari mondiali e ci obbliga a ripensarne gli equilibri. Gli osservatori sono abbastanza concordi nel dire che l’Europa si è compattata di fronte alla minaccia russa, e che la stessa NATO ha dimostrato una solidità non scontata; e che questo potrebbe essere il preludio di un rafforzamento dell’Unione europea anche in chiave di politica estera e di difesa.

Non so se questo obiettivo sarà realizzato in tempi brevi, cosa che personalmente mi auguro, anche se, superato il momento emergenziale, non sarà facile per i Paesi europei rinunciare alla loro autonomia su un terreno così problematico, in nome di un interesse più ampio e condiviso. Ma c’è un aspetto che ancor maggiormente mi inquieta: l’unica prospettiva messa in campo in questo momento è il rafforzamento dell’apparato militare, in una logica di riarmo che rischia di inasprire i contrasti anziché comporli. Con un duplice risvolto: che tali scelte non sono concordate, e quindi affidate alle decisioni dei singoli Stati, e che in tal modo esse risultino disomogenee, più costose e difficili da armonizzare; ma soprattutto, come si fa a decidere quanti soldi spendere in armamenti se non si decide prima quali sono le linee di politica estera e di difesa dell’Europa? Ed è davvero così scontato che la difesa in Europa sia da affidare unicamente a strumenti di tipo militare?

In queste settimane le voci di quelli che chiedevano di attivare iniziative nonviolente e di dialogo sono state spesso dileggiate anche da autorevoli organi di stampa, confondendo spesso un atteggiamento utilitaristicamente pacifista con il coraggioso impegno di coloro che costruiscono la pace con un grande lavoro di studio, con la concretezza di scelte difficili, e pagando anche di persona. Stefano Ceccanti, che con Maurizio Ambrosini ha articolato una riflessione molto lucida nell’incontro (qui il video integrale) promosso qualche giorno fa dal MEIC nazionale sulla guerra in Ucraina, ha riconosciuto il valore dell’obiezione civile al servizio militare, e della rinuncia all’uso delle armi, come scelta personale (che non esclude peraltro, egli ha aggiunto, la possibilità, per chi la compie, di sostenere anche militarmente dei popoli che resistono ad un’aggressione armata). E’ una affermazione che rende giustizia a tante persone coraggiose e tutt’altro che remissive. Ciò che però non mi convince è questo relegare un grande tema come la nonviolenza alla sfera unicamente personale, disconoscendo le possibilità di ragionare con grande apertura mentale sulla sua applicazione in termini comunitari, di popolo e sulla possibilità (o necessità) di avviare processi di umanizzazione proprio là dove si vedono solo prospettive di tipo militare.

Eppure la storia ci indica molti casi in cui la resistenza passiva e la disobbedienza civile hanno avuto ragione di occupazioni aggressive. Mi piace qui ricordare le parole di Hannah Arendt (spesso richiamate in questi giorni) sulla vicenda degli ebrei in Danimarca sotto l’occupazione nazista: “La storia degli ebrei danesi è una storia sui generis, e il comportamento della popolazione e del governo danese non trova riscontro in nessun altro paese d’Europa, occupato o alleato dell’Asse o neutrale e indipendente che fosse. Su questa storia si dovrebbero tenere lezioni obbligatorie in tutte le università ove vi sia una facoltà di scienze politiche, per dare un’idea della potenza enorme della nonviolenza e della resistenza passiva, anche se l’avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori ………

L’aspetto politicamente e psicologicamente più interessante di tutta questa vicenda è forse costituito dal comportamento delle autorità tedesche insediate in Danimarca, dal loro evidente sabotaggio degli ordini che giungevano da Berlino. A quel che si sa, fu questa l’unica volta che i nazisti incontrarono una resistenza aperta, e il risultato fu a quanto pare che quelli di loro che vi si trovarono coinvolti cambiarono mentalità. Non vedevano più lo sterminio di un intero popolo come una cosa ovvia. Avevano urtato in una resistenza basata su saldi principi, e la loro “durezza” si era sciolta come ghiaccio al sole permettendo il riaffiorare, sia pur timido, di un po’ di vero coraggio.”  (H. Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, 1963)

Senza pretendere di assolutizzare un’esperienza, fra l’altro lontana nel tempo, la storia ci consegna vicende e insegnamenti che abbiamo spesso rimosso o posto nell’angolo delle utopie care alle anime belle, ma che invece dovrebbero alimentare la ricerca di ogni uomo e donna che non solo vuole la pace (e chi non la vuole?), ma la intende realizzare; esiste una bibliografia vastissima sui temi della nonviolenza e della resistenza passiva, in larga parte sconosciuta. In questi giorni ad esempio, lungo lo stesso filone ideale, si torna a parlare di Corpi Civili di Pace, che potrebbero, soprattutto alle prime avvisaglie di un evento bellico, diventare uno strumento per mobilitare persone in alcune zone critiche e sostenere le popolazioni coinvolte.

Tutto questo richiede un grande investimento, in termini di educazione delle comunità (perché la nonviolenza non è passiva accettazione dei soprusi, ma al contrario iniziativa forte e continua, anche rischiosa personalmente, e a cui ci si prepara), in termini di organizzazione, ma soprattutto è il frutto di una nuova cultura del conflitto che soppianti la visione militaristica che da sempre pare essere l’unica ad aver campo libero.

Questo è un compito che dovremmo chiedere all’Europa, poiché oggi solo l’Europa può svolgerlo, se avrà coraggio e intelligenza. Noi dovremmo allora domandare che, quando si parla di spese per la difesa, non si pensi solo a strategie militari, ad armamenti sempre più evoluti tecnologicamente, ma soprattutto a generare forme di difesa che fanno appello al grande bisogno di umanizzazione di cui questo mondo ha assoluta necessità.  Se l’Europa vuol tornare ad essere un soggetto politico autorevole (e non un vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro), può farlo solo con un cambio di prospettiva radicale, che la renda capace di esprimere in forma originale i suoi valori etici e democratici. Anche considerando che nei mesi a venire la politica internazionale dovrà ripensare gli assetti mondiali, mettendo mano, fra le altre cose, ad una riforma di organismi come l’ONU e la NATO, nati in un tempo relativamente lontano e oggi inadeguati ad affrontare le crisi nel mondo.

Credo che una associazione come il MEIC debba avere a cuore questi problemi, anzitutto parlandone, tra di noi e con chi ha maggiore competenza ed esperienza. Avrei voluto articolare più ampiamente la mia riflessione, ma non ho voluto abusare della pazienza di chi avrà la bontà di leggere questi miei pensieri, e soprattutto spero che nei mesi e negli anni che verranno la questione dell’Europa e del suo ruolo di pace nel mondo diventino oggetto di un’ampia riflessione culturale, da compiere insieme a tante organizzazioni presenti nella comunità ecclesiale e nello spazio civile. L’esercizio del nostro ruolo profetico, cui il cammino sinodale ci sta chiamando, ha davvero qui l’opportunità per svilupparsi.  Ho la speranza che il MEIC saprà essere catalizzatore di questo processo, e spero che questo non sia solo il sogno di un povero cristiano.