Il tema delle relazioni in azienda nella riflessione sul “prendersi cura di sé”, portata da Giuseppe Iotti alla tavola rotonda conclusiva della Settimana teologica 2022 del Meic.
Non sarà facile inserire l’intervento di un imprenditore in un percorso introdotto dalla così dotta introduzione del prof. Campanini, coi suoi riferimenti alla filosofia, oltre che alle Scritture. Cerco tuttavia di esporre queste considerazioni.
La comunità cristiana, se non forse in alcune sue distorsioni patologiche, considerate spesso ereticali, non è mai stata disincarnata rispetto alla realtà tangibile della vita dell’uomo. Non le sono nemmeno le comunità religiose che si dedicano alla preghiera nella clausura, anzi.
Paolo sottolineava il fatto che lui lavorava per mangiare, sia pure che fosse una sorta di privilegiato in quanto cittadino romano, e uomo di grande cultura, con la quale, evidentemente, per citare con una battuta una nota querelle di qualche anno fa, non mangiava. Ovviamente anche le attività culturali non sono fatte solo di spirito. Numerose e importanti figure del Vangelo, a partire dall’apostolo Pietro, sono descritte riportandone il mestiere, qualche volta nemmeno troppo onorevole secondo la mentalità del tempo. Perfino banale in questo luogo ricordare il motto benedettino “Ora et labora”, e peraltro le comunità religiose spesso si occupavano direttamente di ospitalità e di cura, anche in senso stretto.
La visione fondata sulla nostra fede è che essa va incarnata nella storia, che è quella grande, ma anche quella piccola, nostra personale, familiare, del contesto quotidiano in cui viviamo. E quello che ci viene insegnato, per quanto non sempre vissuto, è che ogni attività della persona ha una sua propria dignità, ciascuno di noi costruisce un pezzo della storia della comunità cui appartiene.
Le attività umane non sono un fatto solitario
Le attività umane, a parte forse qualche rara eccezione, non sono solitarie, ma sono esperienze di relazione tra persone che interagiscono tra loro.
Anche una relazione economica è prima di tutto una relazione umana. Lo era tanto più in un passato, anche abbastanza recente, in cui non c’era il telefono, e poi quello portatile, internet, le e-mail, i messaggini, le videochiamate o videoconferenze, e si comunicava faccia a faccia, o mediante lettere scritte a mano: dunque molto personali; ma la relazione comunque rimane anche oggi. I mezzi di comunicazione odierni hanno la funzione di mettere in relazione persone che sono, in ultima analisi, fatte di carne e ossa.
Relazioni in azienda, anche se in modalità “virtuale“
C’è un mondo virtuale, ma anche nei giovani nativi digitali, in particolare dopo l’esperienza della pandemia, si è vissuta l’esigenza pressante di esserci davvero nelle situazioni, con la propria carne, vivendo le esperienze anche nella propria corporeità. Alcuni dei social stanno andando in crisi perché ci si stanca di incontrarsi solo in una realtà virtuale. A dirla tutta, però, nel mondo del lavoro, dopo la pandemia, scopertosi che così si limitano i costi degli spostamenti e degli affitti, il lavorare a distanza è ancora molto praticato: ma in ogni caso, anche questo comporta comunque forme di rapporto personale.
In una relazione troviamo dall’altra parte una persona come noi, diversa da noi, e se il rapporto non è patologico, o estremamente superficiale, anche quando magari non voluto, esso contiene un elemento di cura per l’altro. Che reciprocamente in qualche modo si prende cura di noi. L’esperienza comune tuttavia non è solo una collezione di attività, come dire, materiali, ma quella dell’innesco di una relazione giusta con l’altro, riconoscendone la presenza e garantendo la dignità che c’è in questa presenza.
L’azienda: comunità di persone
L’azienda, grande o piccola, come la è la mia, è una delle comunità dove si esperiscono queste dinamiche, non meno di quanto accade in una scuola, in un ospedale, nel rapporto di un professionista col suo cliente, in una comunità parrocchiale.
Non capita di rado che un imprenditore, specie se piccolo, si riferisca alla propria azienda come a una famiglia. Un’espressione influenzata dal fatto che spesso le piccole aziende vedono partecipare attivamente persone appartenenti allo stesso contesto familiare. Questa espressione però è impropria e fonte di fraintendimento. Ricordo che all’inizio della mia attività, in un corso di formazione tenuto da una psicologa, fu spiegato come questo modo di descrivere l’azienda fosse inappropriato, anche perché non conosciamo nel profondo le esperienze familiari dei collaboratori: potrebbero essere state disfunzionali, cioè dire “famiglia” non è dire tutto e dire la stessa cosa per tutti.
In realtà l’azienda è una comunità peculiare, dove le dinamiche sociali hanno connotazioni proprie, e ne vorrei descrivere alcune, senza la pretesa di essere un sociologo.
Cosa caratterizza le relazioni in azienda?
Checché se ne dica, specie se si proviene dal mondo dei servizi tecnologici avanzati, magari americani, un’azienda ha tra i suoi elementi fondanti la gerarchia. Questo peraltro, mutatis mutandis, è vero anche nelle articolazioni della Chiesa, e di altre forme di comunità. Dunque l’impresa non è solo sede di rapporti orizzontali tra colleghi, ma anche di rapporti verticali, dove c’è chi ha il ruolo di dare direttive, e chi quello di eseguirle. Se i rapporti sono sani, esiste tra le due figure una dialettica, e spesso la persona “sottoposta” ha un’esperienza nel concreto che le consente di contribuire creativamente al progetto ed alla realizzazione delle direttive. Non sempre è così: ma in questo caso è frutto di una cultura aziendale non corretta.
“Collaboratore”: in che senso?
Oggi spesso si rifugge dal definire l’operaio o l’impiegato un dipendente, preferendosi il termine collaboratore, che è più appropriato a descrivere i rapporti nelle aziende sane, quelle dove non si riducono persone al puro ruolo di esecutori di direttive calate dall’alto, ma dove, ciascuno nel proprio ruolo, si lavora insieme.
Collaborare ovviamente nell’immediato significa “lavorare con”, a dire che le attività esperite in queste forme di comunità si fanno in relazione con altri. Questi altri sono quelli che lavorano con noi, ma anche naturalmente i “clienti”, cioè i destinatari del prodotto o servizio (esistono in questo senso anche clienti di organizzazioni di volontariato, e anche, volendo, clienti di un monastero).
Più in generale oggi si parla di un confronto dell’azienda coi “portatori di interesse”, che sono il territorio, l’ambiente, la politica, tutto il contesto in cui si opera, nel quale l’azienda, in una misura o un’altra, lascia un segno.
Il significato della parola “lavoro”
C’è però un approfondimento che si può fare partendo dal verbo “lavorare”. Come la maggior parte delle parole italiane, deriva dal latino “labor”. Nella nostra lingua madre questa parola significa sì lavoro in senso stretto, ma anche il risultato del lavoro stesso, l’opera che si è fatta, e questo è vero anche in italiano. C’è però un’altra terna di significati che il latino non ha passato all’italiano, che sono: malattia, fatica, e in particolare la fatica che fa la donna nel partorire.
Non è chiara l’origine a sua volta della parola latina, che alcuni fanno risalire a radici protoindoeuropee che si biforcano nelle lingue figlie nei diversi significati di “ottenere, guadagnare, e ricchezza” (come sostantivo), e di “vacillare, debolezza”.
Talvolta, o spesso, la storia delle parole illumina la realtà che rappresentano, e questo è un caso interessante. Se il lavoro è fatica, e contiene aspetti di disagio, e persino di malattia, lavorare in un’azienda non può non contenere aspetti di cura tra le persone. Cura quotidiana delle relazioni, e io direi cura preventiva, nel disegnare un’organizzazione e delle procedure che rispecchino e rispettino questo principio. Non avere una visione irenistica della realtà del lavoro, ammetterne gli aspetti dialettici e di fatica, ma, diciamo così, “prenderli per le corna”, in modo da dirigerli al fine del rispetto e dello sviluppo della persona umana.
Il “di più” dell’imprenditore cristiano
Un’ultima connotazione che mi preme è quella di evitare di interpretare il contesto che ho cercato di descrivere in termini paternalistici e volontaristici. Io imprenditore non sono bravo perché rispetto il contratto nazionale, e magari ci aggiungo un po’ di più se riconosco il merito: questo è solo il mio dovere, posso fare di più
Un imprenditore cristiano parte da qui: pagare le tasse, i contributi, stipendi commisurati all’impegno ed alla responsabilità, rispettare le leggi sul trattamento dei rifiuti, per esempio. Non sfruttare le possibilità che pure la legge ti dà rispetto al lavoro dei giovani, con l’eccesso di tirocini e quant’altro, magari prolungati per anni. Privilegiare, a parità di merito, l’assunzione di persone del territorio. Altrimenti se poi ci si lamenta del calo delle nascite, dell’emigrazione dei giovani, o del fatto che essi si sentono precari e non si sposano, si è un po’ ipocriti.
Gli imprenditori hanno modo di prendersi cura non solo della propria azienda, ma anche della società dove operano, e, come cristiani, farlo non è un merito speciale, ma è solo la loro missione.
Giuseppe Iotti
imprenditore