Il 14 settembre scorso la Procura di Palermo ha presentato la richiesta di condanna del Ministro Matteo Salvini a sei anni di reclusione per avere illegalmente trattenuto, nell’agosto 2019, 147 migranti a bordo di una nave dell’Ong spagnola Open Arms: i reati ipotizzati sono sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio. In assenza di un effettivo pericolo per l’ordine pubblico o di altra ragione giuridicamente apprezzabile, Matteo Salvini, allora Ministro dell’Interno nel Governo Conte I, si è sottratto all’obbligo di indicare alla nave che aveva soccorso i migranti un porto sicuro (place di safety); lo sbarco infine avvenne soltanto in seguito al sequestro della nave ordinato dalla Procura di Agrigento.
Come può agevolmente comprendersi, la vicenda processuale relativa al Ministro (oggi dei Trasporti e delle Infrastrutture) Matteo Salvini reca in sé stessa una molteplicità di profili controversi, tutti ad alto tasso di criticità e di problematicità. In primo luogo, essa ripropone l’ennesima occasione di scontro tra potere politico e potere giudiziario, che reciprocamente si accusano di violare il fondamentale principio di separazione dei poteri. In particolare, gli esponenti della maggioranza di governo, schierati compattamente a difesa del Ministro, denunciano l’ingerenza della magistratura nell’ambito dell’attività di direzione politica, considerando le decisioni contestate a Salvini come una forma di doverosa protezione dei confini nazionali dall’immigrazione illegale; la magistratura lamenta l’aggressione alla Procura di Palermo e l’ennesima manifestazione dell’opzione (incompatibile con i principi di uno Stato di diritto, a partire appunto dal principio di separazione dei poteri) dei membri della classe politica a difendersi non già nel processo, ma piuttosto dal processo.
In realtà, alla radice della controversia si pone la complessa definizione dei confini tra la sfera affidata alla discrezionalità degli organi di direzione politica, che in ultima analisi si configurano come espressione della sovranità popolare, e l’ambito presidiato dalle norme giuridiche, che di tale sfera delineano gli invalicabili limiti, posti a presidio dei diritti dei cittadini e, più in generale, dei destinatari degli atti della pubblica autorità. Dunque, la complessa e delicata questione che si squaderna davanti ai giudici che sono chiamati a pronunciarsi sul “caso Salvini” si risolve nell’individuazione dei confini tra lo spazio devoluto al libero apprezzamento delle autorità politiche, espressione della volontà popolare davanti alla quale risponderanno del loro operato, e l’ambito entro il quale si esercita la signoria del diritto, che quelle autorità vincola con norme per esse indisponibili all’interno delle singole vicende.
È appena il caso di osservare che le dinamiche interne alle due sfere cui si è adesso fatto cenno si presentano a loro volta caratterizzate da una marcata complessità: riconducibili, sul lato della politica, alla molteplicità di organi competenti all’assunzione delle scelte di governo (nonché alla relativa attuazione in via amministrativa), oltre che alla presenza in seno alla maggioranza di una pluralità di soggetti partitici, e, sul lato dell’ordinamento giuridico, alla compresenza di articolate normative internazionali e nazionali in ordine alla disciplina del fenomeno del soccorso in mare (e, in generale, del fenomeno migratorio). Ma non deve essere sottovalutata la peculiare rilevanza che non caso in esame deve riconoscersi alle tutele apprestate dell’ordinamento giuridico: erano in gioco i diritti fondamentali di migranti, e perciò di persone che versavano in condizione di particolare fragilità, ed il diritto rappresenta una forma di tutela preziosa – anzi, davvero insostituibile – precisamente nei confronti dei soggetti che non dispongono di consistenti risorse sul piano economico e sociale.
Ma si può evidenziare un ulteriore profilo del processo a carico del Ministro Salvini che mi sembra particolarmente significativo per un movimento come il MEIC, che, in ragione del suo specifico carisma, risulta “istituzionalmente” attento alla dimensione culturale della convivenza. Hanno rilevato i magistrati della Procura di Palermo che il Ministro degli Interni Matteo Salvini ha agito non già per attuare la linea politica del Governo Conte I (che peraltro proprio in quei giorni, e per effetto di un’opzione politica della Lega, entrava in crisi), ma, “solo contro tutti” (come rivendicava lo stesso Salvini su facebook), per “autopromuovere la sua personale posizione”; in altri termini, lo scopo del comportamento tenuto dal Ministro era di aggregare il consenso popolare intorno alle sue posizioni politiche. Inevitabile domandarsi: ma il consenso dei cittadini non è per definizione un fattore positivo in una convivenza democratica? Come può essere incriminato un politico perché intende raccogliere il consenso dei cittadini?
A ben vedere, in ultima analisi tali domande pongono sul tavolo una questione di formidabile portata politico-istituzionale, ineludibile per ogni sistema democratico: come valutare l’ipotesi che il consenso popolare si aggreghi intorno ad opzioni, comportamenti, situazioni che dal punto di vista del sistema normativo (e segnatamente della Costituzione) rappresentano “patologie”? Adottando una terminologia propria del diritto penale, si può ritenere che il consenso dei cittadini si presenti come un’attenuante, o addirittura un’esimente, o non piuttosto come un’aggravante?
In realtà, sembra preferibile – forse, purtroppo… – la terza ipotesi: il consenso dei cittadini, se risulta premiare opzioni, comportamenti, situazioni incompatibili con il sistema costituzionale, se ne configura come un fattore di (pericolosissimo!) incremento del tasso di “patologia”. E ciò ci riconduce al decisivo ruolo della sfera culturale, della quale in ultima analisi (ma inevitabilmente) il consenso dei cittadini si pone come espressione. La fisiologia della convivenza democratica riposa in una cultura civile nutrita dei valori sanciti nella Carta costituzionale e molecolarmente presenti all’interno dell’intero ordinamento; e perciò un impegno culturale orientato, catalizzato e animato dal lievito dei valori costituzionale si risolve in un potente sostegno della democrazia e, in generale, della politica quale alta espressione di carità.
di Luigi D’Andrea, presidente nazionale Meic