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​Prendersi cura: riflessioni sulla relazione medico-paziente

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Il rapporto medico-paziente nella riflessione sul “prendersi cura di sé”, portata dal dott. Gerardo Iuliano alla tavola rotonda conclusiva della Settimana teologica 2022 del Meic.


Prendersi cura di sé implica, in linea di massima, anzitutto riconoscere una serie di bisogni che ci mettono in condizione di dover ricorrere ad altri.

Lo scenario generale, comune a tutte le relazioni umane, anche religiose, è quello di una ricerca che prevede inizialmente una relazione asimmetrica (richiesta), una risposta – proposta più o meno esperta (diagnosi, nel caso del medico), e un lavoro comune (terapia), a cui consegue una relazione simmetrica (guarigione?).

Il paradigma scientifico è notevolmente mutato con il tramonto del determinismo positivista.
Secondo Karl Popper, la scienza non ha niente a che spartire con la ricerca di certezza, probabilità o anche solo attendibilità. Non c’è realtà osservabile, ma solo le teorie che la interpretano. Sta a noi cercare dove si sbaglia sperando di trovare teorie più adatte.

Per il medico, in particolare, questo significa rinunciare a una parte di potere sul malato.

Modello paternalista del rapporto medico-paziente

In passato, il paziente era spinto a ricercare sicurezza e ad invocare protezione; l’assenza di conoscenze lo induceva a rimettersi nelle mani di chi era giudicato competente. La relazione medico-paziente era improntata a un modello paternalistico di subordinazione del paziente all’azione del medico contrassegnata da un misto di beneficità e potere. La figura del medico era sacralizzata dall’attribuzione di poteri taumaturgici, prima di carattere magico, poi legati a competenze tecniche sempre più specialistiche. Il modello è spesso ancora rintracciabile, soprattutto all’inizio del percorso terapeutico (richiesta di aiuto).

Negli anni recenti, l’acquisizione di un maggiore ruolo pubblico, l’evoluzione tecnologica, la tendenza alla specializzazione, la nascita di sistemi sanitari pubblici, hanno profondamente mutato l’identità del medico.

In particolare dal secondo dopoguerra, dopo la scoperta dell’utilizzo di cavie umane nella ricerca tedesca sotto il nazismo, una serie di dichiarazioni internazionali sui diritti del paziente (Norimberga – Ginevra 1946, Helsinki 1966, Rapporto Belmont 1979, norme di Good Clinical Practice 1982, Oviedo 1997, carta diritti del malato UE 2002), ha notevolmente inciso sulle legislazioni successive, in particolare su aspetti come il consenso informato, la privacy, la formazione di comitati etici e di standard internazionali di buona pratica per progettare, condurre, registrare e relazionare gli studi clinici che coinvolgano soggetti umani.

Modello contrattualistico

Il rapporto medico-paziente si è così evoluto verso un modello di tipo contrattualistico – liberale, caratterizzato da esigenza di informazione sempre più adeguata, e consenso diretto del paziente nelle decisioni sulle cure, in cui prevale il principio di autodeterminazione: il paziente diventa attore principale della propria salute, rivendicando la decisione circa gli interventi medici e il coinvolgimento nell’intero processo curativo.
Il modello liberale è ancora quello a cui si ispirano le più recenti evoluzioni dei servizi sanitari pubblici, ma gli evidenti vantaggi sul piano sociale e terapeutico non possono nascondere problemi e rischi, man mano emersi.

La comunità scientifica perde l’esclusiva della gestione della malattia; il compito del medico tende a ridursi all’informazione del paziente (divenuto «cliente») su malattia e cure, senza interferire sulle decisioni, come semplice fornitore di prestazione; il rapporto medico – paziente si sviluppa su terreno strettamente tecnico, sono esclusi coinvolgimento soggettivo e dialogo interpersonale.

Si aggiungono burocratizzazione, comportamenti disumanizzanti provocati dall’intermediazione degli strumenti, valutazione delle prestazioni in chiave quasi esclusivamente economica.

Il principio di autonomia, anziché essere interpretato come assunzione di responsabilità, può tradursi in rivendicazione, concorrenzialità, o aperta contrapposizione, soprattutto in presenza di un’informazione pubblicitaria interessata che interferisce sulle scelte professionali, determinando, quale reazione, quella che è stata definita “eterogenesi dei fini”, vale a dire il cambio di direzione nell’utilizzo di questi principi, i quali, nati per la difesa dei diritti del malato, divengono sempre più spesso strumento di tutela del medico, generando il paradosso della “medicina difensivistica”, e sempre più spesso, anche di tutti gli interessi assicurativi, imprenditoriali ed economici che gravitano attorno alla medicina.

Così, se all’inizio la battaglia era perché “il paziente non fosse un numero”, oggi, in nome della privacy, è il malato a pretendere di tornare un numero.

Se negli anni ‘70 nascevano i “tribunali dei diritti del malato”, oggi montano le richieste di risarcimento. Sempre più spesso tendenze (e sentenze) della medicina, più assicurativa che legale, tendono a portare il medico, dall’ “obbligazione alla cura” all’ “obbligazione al risultato”.

La stessa normativa sulla ricerca medica, tra comitati etici, consensi informati, protocolli, dossier, sponsor, porta ad un aumento dei costi di una sperimentazione corretta, e spesso anche di un semplice studio osservazionale, che finisce col favorire gli sponsor privati, per lo più multinazionali farmaceutiche, rendendo estremamente complicata la ricerca indipendente, in particolare pubblica.

La conseguenza è che, sempre più, le stesse revisioni sistematiche, che dovrebbero essere elaborate su una robusta griglia epidemiologico- statistica per condurre a “linee-guida”, risultano condizionate da “bias di pubblicazione”: gli studi non favorevoli a una procedura o un farmaco tendono a non essere pubblicati.

Sul piano economico, sono evidenti le ricadute: in Italia, l’aumento dei costi conseguito alla legge 833-1978 che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale, non solo non è stato contenuto dalla riforma del 1992, improntata su base aziendalistica e privatistica, ma si è ulteriormente incrementato con la “regionalizzazione” del 1999, mentre progressivamente l’assistenza diminuisce (il concetto della ”coperta corta”), emergono “ticket”, i posti letto si riducono, e l’attività degli ospedali diventa sempre più simile a una catena di montaggio.

Il ruolo della bioetica

La bioetica, in particolare quella di marca cattolica (Sgreccia, Spinsanti, Piana), interviene da anni nel dibattito. Sono noti i 4 principi fondamentali:

  • di autonomia (o di auto determinazione): rispetto della volontà del paziente nell’ambito delle decisioni terapeutiche che direttamente lo riguardano;
  • di non maleficenza: non riducibile a quello di beneficenza, legato a un’antichissima tradizione (“primum non nocere”) definisce ciò che si deve evitare (rapporto “rischio-beneficio”);
  • di beneficenza;
  • di giustizia: prescrive di trattare le persone in modo uguale.

Criteri essenziali e collegati, quello di imparzialità e quello della equa distribuzione delle risorse (rapporto “costo-beneficio”).

Modello della “Alleanza terapeutica” medico-paziente

Su queste basi, i bioeticisti ripensano la relazione medico-paziente come un incontro tra due persone, le cui situazioni esistenziali profondamente diverse determinano una evidente disparità di partenza: da un lato il paziente che ha bisogno di essere aiutato, dall’altro il medico che deve rispondere al bisogno.
Emerge una modalità, quella dell’ “Alleanza terapeutica”, che, pur riconoscendo l’ autonomia del paziente, si muove in una sfera meno giuridica e più umanistica, formulata, in ambito medico, soprattutto da fonti psichiatriche di formazione psicanalitica.

In chiave antropologica e religiosa il termine «alleanza» rinvia, come a suo paradigma originario, alla relazione tra Dio e l’uomo così come si sviluppa nella rivelazione ebraica, in cui i due partners non sono sullo stesso piano, non hanno le stesse motivazioni all’incontro e non agiscono allo stesso modo. (G. Piana: Etica Scienza Società – i nodi emergenti. Rocca Libri – Cittadella Ed. – Assisi, 2005).

In chiave medica, l’incontro tra medico e paziente è un incontro tra due persone piene di paura, in cui al trasfert del paziente si relaziona il controtransfert del medico, tra ricerca e resistenza alla guarigione.
Ne parla già Michael Balint nel 1957 (Medico, paziente e malattia. – Feltrinelli ed. – Milano, 1961).

L’evidente asimmetria iniziale del rapporto, non adeguatamente elaborata, può diventare occasione di conflitto, soprattutto a seguito della rivendicazione di autonomia da parte del paziente e della legittima volontà del medico di non rinunciare alla propria funzione ispirata al principio di beneficenza.

L’elaborazione positiva del conflitto è resa possibile dallo sviluppo autentico della relazione: il medico non si limita al rispetto formale della volontà del paziente, ma entra in discussione con lui, aiutandolo a interpretare i suoi desideri, anche inconsapevoli; il paziente riconosce la competenza professionale e l’interesse del medico per il suo bene e considera perciò seriamente i dati. Dalla semplice esecuzione di una prescrizione (compliance) si arriva all’accettazione (adhaerence) e anzi alla condivisione (concordance) (Rapaport 1997, Gray 2002).

Il modello rispetta l’autodeterminazione del paziente, coinvolgendolo direttamente nel processo, ma necessita di un profondo livello di comunicazione, un clima di reciproca fiducia, e il superamento di atteggiamenti di diffidenza o, inversamente, di mero interesse economico, e apertura a valori quali la gratuità e la solidarietà.

Sotto questo aspetto, cadono molti dogmi del modello contrattuale.
Dalla parte del medico, ad esempio, nel caso della comunicazione di una diagnosi, spesso infausta, dopo la “menzogna pietosa” del modello paternalistico, e la “verità ad ogni costo” di oggi, la “rivelazione” che si propone risulta dall’elaborazione degli elementi necessari perché il paziente sia messo nelle condizioni ottimali per comprendere e collaborare (concetto che potrebbe essere molto illuminante anche in chiave di riflessione teologica).

La “Collusione dell’anonimato” che si verifica quando più medici sono presenti, ad es. in ospedale, sarebbe facilmente superabile individuando, anche nel lavoro di gruppo, un solo responsabile per ogni paziente, a cui il gruppo faccia riferimento per decisioni e comunicazioni. Lo stesso concetto di privacy, deve essere reinterpretato se pensiamo a terapie di gruppo, non solo in ambito psicologico e psichiatrico, e a gruppi di auto aiuto e di socializzazione gestiti dagli stessi pazienti.

Dalla parte del paziente, l’espressione chiara della sua volontà può essere formulata in una “crisis card”, comune nel mondo anglosassone, in cui il paziente autorizza al trattamento in caso di crisi, anche contro la sua volontà del momento (per es, in casi come il disturbo bipolare, vedasi il “contratto di Ulisse”, che pur di ascoltare le sirene, chiese ai compagni di non slegarlo anche “contro la sua volontà”).

Un altro esempio, il testamento biologico per il fine vita, i cui elementi possano essere discussi col medico: tra eutanasia ed accanimento, si può notare che da una parte l’eutanasia “attiva” non è condannata solo dal cattolicesimo, ma è un tabù transculturale, come testimonia il giuramento di Ippocrate; dall’altra l’accanimento terapeutico in caso di prognosi infausta è giudicato eccessivo anche dal magistero cattolico preconciliare (E. Pacelli, 1957), richiamato peraltro negli ultimi interventi di Jorge Bergoglio (“Non attivare mezzi sproporzionati o sospenderne l’uso, equivale a evitare l’accanimento terapeutico, cioè compiere un’azione che ha un significato etico completamente diverso dall’eutanasia, che rimane sempre illecita, in quanto si propone di interrompere la vita, procurando la morte”, 2017).

La “guarigione” va intesa, più che come risoluzione del problema (obbligo alla cura, non al risultato), come superamento del bisogno, dell’iniziale asimmetria, per arrivare a un rapporto di reciprocità, e di mutuo aiuto.

Conclusioni e un auspicio

Perché tutto questo si affermi non è sufficiente restituire autenticità alle relazioni, ma è necessario riformulare lo stesso statuto della medicina, superandone la concezione positivista per un orientamento sistemico e multidimensionale, basato su un’antropologia personalista, che riporti al centro l’uomo malato e la sua esistenza in termini biologici, psicologici, e sociali.

Il modello basato sull’alleanza terapeutica dispone di una vastissima bibliografia bioetica e scientifica, ed è sempre più presente anche nella didattica universitaria, ma è ancora assente nelle dichiarazioni internazionali, e nella normativa, soprattutto pubblica; l’auspicio per il MEIC è che un’associazione che è stata capace di esprimere una “carta di Camaldoli” possa avere sufficienti risorse intellettuali per affrontare il compito di tradurre concetti bioetici e scientifici in proposizioni giuridiche e politiche.

Gerardo Iuliano
medico