09 Marzo 2018
di RICCARDO SACCENTI
L’esito delle elezioni del 4 marzo restituisce un quadro politico al tempo stesso profondamente nuovo ed estremamente fragile. Come è apparso chiaro all’opinione pubblica questo è vero se si guarda ai numeri usciti dalle urne e alla loro traduzione in termini parlamentari. La diciottesima legislatura repubblicana si presenta infatti segnata fin dal suo inizio dalle forche caudine della formazione di un governo e prima ancora dalla costruzione di una maggioranza parlamentare. Sarà certamente il Capo dello Stato a dover gestire questo passaggio istituzionale ma rispetto agli esiti a cui si giungerà, l’atteggiamento e la capacità politica dei partiti non sarà né neutra né esente da responsabilità profonde.
Esiste tuttavia un livello ulteriore, che dal punto di vista degli attori politici – i partiti certamente, ma anche le forze culturali, economiche e sociali – è primario ed essenziale. Il risultato elettorale infatti rispecchia fratture profonde che attraversano il paese e delle quali un parlamento apparentemente bloccato è il risultato conseguente. La geografia elettorale che emerge dalle urne racconta un paese nel quale si saldano, fra le altre, due profondissime fratture. Una, di ordine sociale, si radica in un divario crescente fra ricchezza e povertà, nella insofferenza diffusa verso una redistribuzione della ricchezza attraverso il sistema fiscale e quello sociale del tutto inadeguata e nel senso di ingiustizia per un lavoro la cui dignità è stata ed è troppo spesso calpestata. L’altra frattura è di ordine geografico e passa per il contestuale successo di un centro-destra guidato dalla Lega Nord nella parte centro settentrionale del paese e per quello del Movimento 5 Stelle che ha il proprio cuore elettorale in tutta la parte centro meridionale della penisola. Si tratta di un voto che risponde a timori, preoccupazioni e aspettative che si sono via via distanziate fin quasi a creare uno scollamento fra una parte del paese, il Nord, che ha considerato come prioritarie le questioni dell’immigrazione e di una radicale riduzione della pressione fiscale e un’altra, il Sud, per la quale l’urgenza è invece la povertà, la disoccupazione e la corruzione e il malcostume diffusi nelle classi dirigenti dei partiti “tradizionali”. Sono tensioni individuali e collettive che rischiano di essere opposte, di confliggere fra loro e rispetto alle quali vi è una richiesta di operatività della politica che appare sovradimensionata rispetto alle reali capacità di trovare soluzioni percorribili.
Di fronte a questo orizzonte alle forze politiche che siederanno nel nuovo parlamento spetta il compito di lavorare a comporre queste molteplici lacerazioni cercando sintesi politiche di ordine superiore capaci di governare i conflitti e renderli lo strumento di una dialettica che permette di scorgere orizzonti comuni. Fare questo significa ricordare prima di tutto che esiste un limite intrinseco all’agire politico, che non può avere la pretesa di ridurre a se stessa la realtà variegata, plurale e complessa di un intero paese. Si tratta di un sussulto di consapevolezza di sé da parte della politica che oggi è più urgente che mai per evitare di caricare il paese di attese destinate inevitabilmente ad essere deluse e ad alimentare ancora di più paure, tensioni e fratture. E serve anche a ricordare che, nel quadro della nostra vita come comunità politica che condivide un destino europeo, il valore delle istituzioni democratiche e la loro preservazione va al di là di ogni esigenza di parte, di ogni pur legittima rappresentanza di interessi particolari, di ogni dinamica o dialettica interna o esterna a quei partiti che dovrebbero essere gli strumenti di una partecipazione dei cittadini al funzionamento della nostra repubblica parlamentare.