06 Dicembre 2015
1) Il canto dell’esiliato
In questa seconda domenica di Avvento gli occhi si riempiono della prima lettura di Baruc (5,1-9). La sensazione è come quando in una galleria d’arte si resta impressionati da un quadro e le gambe non riescono a procedere oltre. Segretario di Geremia, e fedele amanuense delle sue più pesanti profezie, egli visse il disastroso compiersi dell’esilio babilonese. Accompagnò il suo maestro in Egitto, per restare accanto al resto recalcitrante di Israele, ma Geremia lo mandò a Babilonia, rifiutando per sé la libertà offertagli da Nabucodonosor. Tra le macerie di un popolo pentito che invoca misericordia, e che piange la patria perduta, Baruc scrive un libro corto dove dominano i temi della sapienza e della speranza. Una tradizione vuole che sia successivamente tornato in Egitto per morire lapidato insieme a Geremia, per mano degli ingrati concittadini che li accusarono di collaborazionismo. Il brano odierno chiude il libro, perché l’ultimo capitolo riporta una lettera dello stesso Geremia.
«Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione,
rivèstiti dello splendore della gloria
che ti viene da Dio per sempre.
Avvolgiti nel manto della giustizia di Dio,
metti sul tuo capo il diadema di gloria dell’Eterno,
perché Dio mostrerà il tuo splendore
a ogni creatura sotto il cielo.
Sarai chiamata da Dio per sempre:
“Pace di giustizia” e “Gloria di pietà”» (vv.1-4).
Pochi pittori avrebbero saputo descrivere la speranza con termini così luminescenti. La scena è abbagliante, e bisogna persino ripararsi gli occhi per non restarne accecati. Il primo atto è: “deponi la veste”. Il vestito si attacca alla pelle, e indica la vecchia condizione di cui disfarsi. La speranza non è nostalgia, non è guardarsi indietro né attendere il ritorno di ciò che si è perduto, ma aprirsi a qualcosa di nuovo. Nel periodo post-esilico Gerusalemme diventa la città universale, per cui è ragionevole estendere l’orizzonte alla terra che oggi abitiamo. Terra di vita e spesso di morte, grembo del seme che viene distrutto, ma che si appresta a rinascere, trasformandosi in germoglio, e poi produrre il grano che ci nutre. Tolta la veste si resta nudi, ma inizia il secondo atto: il rivestimento. L’operazione implica l’aiuto di un altro, e Baruc vede Dio nei panni del sarto che cuce un abito nuovo. A noi tocca spogliarci, a Lui rivestirci. Ed è un abito che pochi stilisti riuscirebbero a cucire.
La sua fibra è lo splendore della gloria e i suoi colori non hanno zone d’ombra. Nel linguaggio biblico la “gloria” è un attributo di Dio, che rivolta verso gli uomini diventa la sua “grazia”. È vero che siamo polvere, scriveva Georges Bernanos, ma pur sempre “polvere luminosa”. Chi si gloria da sé non ne assapora il frutto, perché Dio non è come gli dèi greci, segregati nella propria felicità, bensì l’eterno donatore. Quando perciò trasformeremo la gloria in grazia, e sapremo cucire sulla pelle nuda dell’umiliato l’indumento della speranza che gli è stata rubata, allora, e solo allora, saremo nella gloria di Dio. L’abito nuovo non basta, Dio confeziona anche il mantello della giustizia. L’incantevole rivestimento si conclude col nome nuovo: «Sarai chiamata: “Pace di giustizia” e “Gloria di pietà”». Questo è il popolo della nostra utopia, quello in cui governano la giustizia, la pace, la fede e la misericordia. Un sogno. Sì, un sogno, che proprio il salmo del giorno ci mette sulle labbra:
«Ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia.
Allora si diceva tra le genti:
grandi cose ha fatto il Signore per noi.
Eravamo pieni di gioia».
2) La voce del deserto
Il vangelo (Lc 3,1-6) ci mette davanti un altro personaggio seducente: Giovanni Battista. La sua vita e il suo messaggio sono distanti da quelli di Gesù, che vive tra la gente, si circonda di discepoli e predica la misericordia, mentre lui vive da solitario, si veste di peli di cammello, si ciba di locuste e miele selvatico, e annuncia la collera di Dio. Eppure chi è che leggendo il suo profilo evangelico non ne resta affascinato? Chi è che non sente un fremito per quest’uomo ucciso da uno dei più bassi intrighi di potere? Gesù stesso ne farà l’elogio. Questo significa pure che non dobbiamo rinchiudere il cristiano perfetto in una sola categoria, di solito la più confacente alle nostre idee. A Giovanni toccò l’importante compito del precursore, di indicare il Cristo nella folla anonima assiepata alla riva del Giordano, il fiume della speranza. Egli è perciò un grande testimone dell’avvento, e ciò spiega perché la liturgia lo colloca in questa domenica. Romano Guardini ne fa questo ritratto:
«Nulla per sé, tutto a disposizione della forza divina che lo guidava. Di questo metallo è Giovanni Battista, l’ultimo dei profeti. Dappertutto in lui pulsa un fremito di presenza. Dappertutto vibra quello che gli evangelisti chiamano la pienezza dei tempi, l’ora è matura. Per quest’ora vive Giovanni. A quest’ora egli accenna. Tra i profeti del messia egli è colui che può dire: eccolo lì!».
L’espressione “voce di uno che grida nel deserto” è di solito interpretata come sinonimo dell’inutilità di un avvertimento. Ma il deserto non è muto! È il silenzio che si fa voce, il vuoto che trascina nella notte dei tempi, e che ti può sorprendere se cerchi l’essenza delle cose. «Mi è sempre piaciuto il deserto. Ci si siede su una duna di sabbia. Non si vede nulla. Non si sente nulla, e tuttavia qualche cosa risplende nel silenzio. “Ciò che abbellisce il deserto – disse il piccolo principe – è che nasconde un pozzo in qualche luogo”». Per l’uomo biblico è la terra del ricordo e dell’alleanza, quando Dio giurò eterno amore, ma anche della tentazione, di Massa e Meriba, dove il popolo smarrì la speranza. Giovanni è un uomo del deserto. La citazione di Isaia, che dice “voce di uno che grida nel deserto” (40,3), è il suo grido messianico: il liberatore è giunto! La promessa non ci ha delusi e la ricostruzione è possibile, perché egli è in mezzo a noi. Basta alzare lo sguardo: eccolo è lì, in mezzo alla folla.
Sulla bocca del Battista l’annuncio di Isaia ottiene l’effetto immediato di farci passare da spettatori a costruttori: spianate la via, raddrizzate i cuori, ricoprite i vuoti, abbattete la superbia, ristabilite il diritto, componete i contrasti. Il fatto che Giovanni si sia proclamato “voce” e non “parola” consente un’ultima applicazione: la tentazione di dimenticare che la Parola non ci appartiene, ma ne siamo solo l’eco. Il testo lucano dice con molta spontaneità che la parola di Dio “venne su” Giovanni nel deserto. Quante parole abbiamo nel nostro bagaglio, ma la Chiesa non è parola di se stessa bensì Parola ricevuta. Chi non si lascia afferrare da essa diventa lo speaker di qualche ideologia. La parola di Cristo crea, redime e riconcilia. Ed è questa la Parola che vogliamo trovare sulla bocca della Chiesa. «Restituiscimi la mia parola, dirà il Giudice all’ultimo giorno. L’abbiamo custodita, noi, la parola? E se l’abbiamo custodita intatta, non l’abbiamo messa sotto il moggio?» (Georges Bernanos).
Don Giovanni Tangorra