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Prendersi cura di tutto l’essere umano: l’introduzione di Guido Campanini

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L’introduzione di Guido Campanini alla tavola rotonda conclusiva della Settimana teologica 202 sul “prendersi cura di sé”.


Perché hai veduto, Tommaso, hai creduto” (Gv 20,29): così dice il Signore risorto all’apostolo. “Tommaso, che non ci crede se non ci mette il naso” – dice un detto popolare; povero Tommaso, che pure nel quarto Vangelo compare più volte, è ricordato sostanzialmente come l’apostolo incredulo…

Ma a cosa non crede Tommaso? Qual è l’oggetto della sua incredulità? Si dice, e purtroppo lo sentiamo ogni anno in molte omelie, che Tommaso, assente la sera di Pasqua quando il Signore era apparso ai discepoli (Gv 20,19; 20, 24), non credesse all’apparizione del Risorto, donde il suo dire “se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi…” (Gv 20, 25) in risposta all’esclamazione degli altri dieci: “Abbiamo visto il Signore!” (idem).

Tommaso, invece, sembra piuttosto ricordarci che la fede non è una esperienza solamente intellettuale, spiritualistica, mistica, fatta di visioni e di apparizioni, ma una fede che ha bisogno anche dei sensi, del vedere e del toccare. Ma cosa Tommaso, ed anche noi, come lui discepoli del Signore seppure “di seconda mano” (direbbe Kierkegaard), vuole vedere e toccare?

Il corpo e lo spirito. Il contesto culturale del quarto Vangelo

Facciamo un passo indietro, ed insieme uno in avanti. Quando viene scritto il quarto Vangelo, sul finire del I secolo, il nascente cristianesimo è percorso da una tentazione ereticale di origine gnostica.

Lo gnosticismo è una corrente di pensiero e di spiritualità, di radice neoplatonica e fortemente dualistica, che attraversa la cultura dell’età imperiale e si diffonde anche all’interno delle Chiese cristiane, specialmente in Asia minore (dove operavano le comunità giovannee). Lo gnosticismo è stato a lungo studiato, nel Novecento, da quel grande pensatore ebreo-tedesco, Hans Jonas, allievo di Heidegger, che notò ampie somiglianze fra la cultura gnostica del mondo antico e talune tendenze del mondo contemporaneo, a cominciare proprio dal pensiero di Heidegger.

Lo gnosticismo separa lo spirito (buono) dalla materia e dal corpo (cattivi), con esiti tanto ascetici e mistici, quanto di dissolutezza sessuale (se il corpo non conta nulla ai fini della salvezza, lo posso del tutto ignorare, oppure assecondare in tutte le sue pulsioni).

La salvezza è questione di intelligenza e misticismo, riservata a pochi eletti, a spiriti superiori, in grado di avere esperienze straordinarie. E taluni cristiani, impregnati di tale mentalità, non avevano problemi ad accettare le manifestazioni “spirituali” dell’Assoluto, a credere in un Padre creatore dell’universo, in uno Spirito che dava agli eletti la possibilità di elevarsi a visioni mistiche, in un Cristo glorioso e superiore, che appunto poteva apparire, del tutto spiritualizzato, a chi era illuminato dallo Spirito, e quindi in grado di avere una conoscenza (gnosi) intellettuale e spirituale, negata alle masse.

Ecco, il Tommaso del racconto giovanneo simboleggia costoro. Tommaso crede facilmente in un Cristo spirituale, in un Cristo glorioso: ma gli altri dieci discepoli gli dicono che, apparendo la sera di Pasqua, “mostrò loro le mani ed il fianco” (Gv 20,20), ossia i segni visibili della passione, i segni dei chiodi e la ferita sul costato, da cui erano usciti “sangue ed acqua” (Gv 19, 34) (Non a caso, dopo aver scritto che, appunto, dal costato uscì sangue ed acqua, l’autore del quarto Vangelo subito aggiunge “chi ha visto ne dà testimonianza”).

Ossia, per farla breve, il Cristo risorto è la stessa persona del Gesù crocifisso. È questo l’oggetto della incredulità di Tommaso: Tommaso non crede che sia proprio il crocifisso, l’uomo dei dolori umiliato e torturato, ad essere Risorto. E che dunque la fede non consiste in illuminazioni particolari, ma ha a che fare con la carne ed il sangue della vita umana, con la sofferenza e la morte (ed anche, ricordiamocelo, con il piacere e la gioia dei sensi). Credere nel Gesù crocifisso – Cristo risorto vuol dire cum-patire, partecipare “con Cristo e in Cristo” al dolore del mondo.

La croce e la risurrezione sono le due facce del medesimo mistero della redenzione – mentre in molti circoli gnostici si negava la stessa morte di Cristo, sostenendo che all’ultimo momento lui se ne era volato in cielo e che chi era morto era una sorta di controfigura.

Non a caso nel prologo della prima lettera di Giovanni si dice molto chiaramente “quello che era da principio … ossia il Logos (Verbo) della vita … quello che abbiamo veduto con i nostri occhi … che le nostre mani hanno toccato” (cfr 1Gv 1, 1-4); vedere e toccare, quello che vuole fare Tommaso.

Non a caso nel prologo del IV vangelo è scritto “O logos eghéneto sarx”, (“il Verbo si è fatto carne” – Gv 1,14), dove logos è termine carico di significato nel mondo greco neoplatonico e stoico (parola, pensiero, principio del tutto…), mentre sarx non indica semplicemente il corpo (soma, se mai), o la carne umana – ma la carne malata, putrefatta (donde sarcofago): la carne di un crocifisso…

(E infatti l’iconografia della “incredulità di san Tommaso”, pensiamo alla grande tela del Caravaggio, insiste proprio sulla carnalità, sul toccare, sul mettere la mano dentro il costato ferito di Gesù… il Crocifisso e il Risorto sono la stessa persona!)

Lo scandalo del Crocifisso

Insomma, nel I secolo era più facile credere al Risorto che al Crocifisso, o meglio, era difficile credere ad un Risorto dapprima Crocifisso… Ed era più semplice vivere una fede disincarnata, spiritualista, mistica, rispetto ad una una fede che invece si sporca le mani col povero, col malato, con l’emarginato, e che in generale vive nel mondo, nel lavoro, nella fatica, ma anche nella gioia, nella soddisfazione di un lavoro ben fatto ed infine, anche nel godimento dei sensi, appurato che la fede ha bisogno di un vedere e di un toccare – certo, “beati quelli che non hanno visto e hanno creduto” (Gv 20,29): ma credono appunto nell’identità del Gesù di Nazareth, figlio di Maria, con il Cristo glorioso, Logos eterno del Padre.

Dicevamo di Jonas: la sua ricerca sullo gnosticismo, oltre che un valore storico, intende anche interpretare il nostro tempo: lo gnosticismo è ben presente nella nostra cultura. La nostra infatti non è un’epoca non religiosa, antireligiosa, o “secolarizzata”: la nostra è un’epoca molto religiosa, molto mistica – ma non in senso cristiano. Si cerca il proprio benessere spirituale, il proprio star bene “con se stessi”. Abbiamo religioni del corpo (delle diete), religioni della mente (della psiche), religioni spiritualistiche-mistiche di origine più o meno orientale; la manualistica sullo “star bene” è diffusissima, molti dicono di “pregare a modo loro”, di “credere a modo loro”, di star bene nelle oasi di spiritualità – cristiana o meno – presenti nei nostro territori.

E come nel I secolo, anche nella Chiesa tentazioni gnostiche sono ben presenti: movimenti che si fondano su esperienze mistiche ed eccezionali, su visioni o apparizioni (presunte), riservate pochi eletti, e purtuttavia con milioni di persone che sperano che tale evento si ripeta per loro…

Il Santo padre, parlando alla Chiesa italiana a Firenze nel 2015 (discorso peraltro poco ascoltato e ancor meno messo in pratica), affermava essere lo gnosticismo – ossia un cristianesimo spiritualistico e disincarnato, che non vuole toccare la carne del povero, la carne crocifissa di Gesù, alla fine toccata da Tommaso – una delle due grandi tentazioni presenti nella Chiesa di oggi (l’altra è il pelagianesimo, ossia il culti dell’efficienza e dell’organizzazione).

Antropologia che rischia il dualismo dell’essere umano

Un’antropologia con qualche rischio di dualismo è quella proposta nella seconda metà del secolo scorso dal medico australiano, cattolico, premio Nobel per la medicina John Eccles, e dal filosofo austriaco Karl Popper. Il loro lavoro sul tema si intitola “L’Io e il suo cervello” (The Self and its Brain), pubblicato in italiano nel 1981. Eccles propone una tesi, che io chiamo neo-cartesiana (e quindi dualistica: ecco il legame col precedente discorso circa lo gnosticismo), secondo la quale nel cervello umano vi sarebbero delle “sinapsi aperte”, che iniziano a funzionare non perché “toccate” da un’altra sinapsi, ma perché, evidentemente, stimolate da una realtà immateriale che “parla” al cervello. Tale realtà è chiamata Io (Self), o anche Mente, Coscienza – insomma la vecchia “anima”.

Sulla base di questa tesi, Popper sviluppa una teoria complessiva, che io definirei, contro la volontà dell’autore, metafisica, circa l’essere e l’uomo. Il testo scritto specificamente da Popper si intitola “Coscienza, materia cultura”, e qui l’autore parla dell’esistenza di tre “mondi”:

  • il Mondo 1 (mondo fisico, l’intero cosmo di materia ed energia, al quale appartiene anche il nostro corpo fisico);
  • il Mondo 2 (il mondo degli stati di coscienza, delle percezioni interne ed esterne – la nostra anima, per usare una terminologia classica);
  • il Mondo 3 (il mondo della cultura, creato dall’uomo e non reperibile, in natura, ma che tuttavia abbisogna del mondo materiale per essere): questo terzo Mondo non è altro che il prodotto dell’azione della Coscienza sulla Materia. Le “tavole della legge”, prodotto per così dire spirituale, sono scolpite sulla pietra, su una materia ben dura e resistente: ed insieme sono un prodotto culturale.

E forse oggi JHWH comunicherebbe con Mosè tramite computer, ma sempre di ferro, silicio, plastica…. La cultura non è solo materiale né solo spirituale, ci insegna Popper, ma è la sintesi dell’uno e dell’altro elemento. Così noi crediamo che sia, non dualisticamente, non gnosticamente, l’essere umano: unità di mente e di corpo (sinolo, diceva il vecchio Aristotele), di natura e cultura, di sé e dell’altro. “Il mio corpo è più del mio corpo”, scriveva E. Mounier, che ci ricorda come la persona sia intrinsecamente relazione, sia un in dialogo con altri (e con un Altro), sia appunto unità di coscienze e di materia, sia produttrice di cultura ed insieme debitrice della culture in cui si trova a vivere.

Tavola rotonda sui “mondi” dell’essere umano

Mondo 1, il corpo… dunque la medicina, e abbiamo con noi il prof. Gerardo Iuliano, medico.

Mondo 2, la coscienza, la mente, lo spirito… dunque l’educazione, e abbiamo con noi la prof.sa Daniela Bellabarba, dirigente scolastica a Padova.

Mondo 3, la cultura, la costruzione del mondo dell’uomo, e dunque il lavoro, la produzione, l’economia, e abbiamo con noi l’ing. Giuseppe Iotti, di Parma, imprenditore, titolare dalla Koppel, azienda che produce ascensori.

Ma ovviamente la medicina non è solo cura del corpo, ma del corpo di una persona – come sa chi ha avuto lunga esperienza di medici e di ospedali.

E l’educazione non riguarda solo le menti dei bambini e degli adolescenti – e due anni di COVID ci hanno fatto capire quanto gli aspetti corporali, visivi, di gesti, di movimenti concorrono non solo all’educazione in generale, ma alla stesso apprendimento delle conoscenze.

Quanto al lavoro, alla produzione, all’economia, forse mai come nel lavoro, che davvero nobilita l’uomo, e che è una peculiarità intrinseca dell’essere umano, si manifesta quell’unità di coscienza e materia che diventa cultura e trasformazione del mondo.

Guido Campanini
vicepresidente nazionale del MEIC