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PARMA. Molte domande sul “fine vita” chiedono attenzione

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Pubblichiamo l’introduzione, ricca di domande, di Guido Campanini al seminario di Parma del 13 maggio 2023. Promosso dal gruppo Meic e dal “Centro di bioetica Luigi Migone” sui problemi legati alla fine della vita.


Il dibattito di cui saremo insieme testimoni e, spero, partecipi, riguarda questioni di fondo che interrogano l’etica, il diritto, la metafisica, la teologia, la medicina, la psicologia…. Sembrerebbe impossibile esaurire l’argomento in un paio d’ore, ma i nostri valenti relatori saranno certamente in grado di affrontare i tanti nodi della questione e di indicare qualche sentiero, qualche strada per proseguire poi nella riflessione.

Fino a che punto si può disporre della propria vita?

Sulle questioni inerenti l’inizio e la fine della vita umana (su aborto ed eutanasia – per semplificare), si sono espressi – parlando dell’Italia – sia il legislatore, sia il popolo sovrano attraverso lo strumento del referendum abrogativo, sia i tribunali, sia, e soprattutto, la Corte costituzionale.
Nel dibattito pubblico le diverse “parti” hanno sostenuto o sostengono l’una o l’altra delle possibili soluzioni a partire da principi considerati supremi e invalicabili. Nel caso in questione: il diritto alla vita come diritto invalicabile e incomprimibile; il diritto a disporre di sé come diritto altrettanto incomprimibile.

(Si noti tra parentesi che nel caso dell’eutanasia si discute soprattutto, anche se non esclusivamente – pensiamo a malati terminali privi di coscienza – del diritto di disporre della “propria” vita, mentre nel caso dell’aborto entra in gioco, insieme al diritto di disporre del proprio corpo, anche il diritto alla vita di un altro essere umano).

Al di là delle valutazioni, etiche o giuridiche, che ciascuno di noi può dare circa le sentenze della Corte, in materia di aborto e in materia di eutanasia, si deve prendere atto che il problema è quello di far convivere diritti e principi fra loro in opposizione, nessuno dei quali può essere considerato talmente “assoluto” da prevalere su altri principi o diritti.

Il caso dell’aborto …

Nel caso dell’aborto, né la legge né la Corte parlano di un “diritto” all’aborto, ma consentono l’aborto a determinate condizioni. (Lasciamo stare il fatto che le condizioni sono poi tali e tante che …).

Pur affermando, la legge 194/1978 e le sentenze della Corte, che il diritto alla vita del nascituro non è un diritto assoluto, e va contemperato con altri diritti, come il diritto della madre alla vita e alla salute fisica o psichica, si ribadisce contemporaneamente che il diritto alla vita del nascituro non può essere completamente eluso, che la vita del nascituro non è un bene completamente disponibile alla volontà altrui, e che pertanto l’aborto non è un diritto assoluto.

… e del suicidio

E, sempre secondo la Corte, nemmeno il disporre di sé può essere un diritto assoluto – altrimenti dovrebbe essere possibile acquistare in modo legale un kit per il suicidio.

La Corte infatti ha affermato, in occasione della sentenza che ha rigettato il quesito referendario sull’omicidio del consenziente, che il valore della vita è sostanzialmente indisponibile anche al soggetto stesso, sulla base dei principi fondamentali del nostro ordinamento – e che solo in determinati condizioni o situazioni può essere eluso in nome di altri principi e di altri diritti.

Il problema è dunque non tanto l’affermazione astratta di un principio o di un diritto, quanto la necessità di far convivere e di conciliare, nei tanti e diversi casi concreti, principi e diritti che in astratto sono fra loro opposti.

Ha senso oggi parlare di “morte naturale”?

Nel dibattito pubblico, specie da parte cattolica (qui usiamo tale espressione in senso giornalistico), si insiste molto sul concetto di “morte naturale”. Sotto vi è forse l’idea, un po’ arcaica, che la natura obbedisca a leggi datele dal Creatore, e che rispettare la natura significa fare la volontà di Dio…
Ma ha senso, oggi, parlare di “morte naturale”?

Si dice infatti che non sarebbe lecito anticipare la morte di nessuna persona, che occorre attendere che “la natura faccia il suo corso”. Perciò il dare la morte a se stessi o ad altri non è mai moralmente lecito: né ovviamente attraverso la violenza (l’omicidio) e la guerra, né attraverso l’aborto procurato, né attraverso la somministrazione di farmaci che la morte, appunto, procurano.

Certo non è un principio assoluto. La legittima difesa, individuale o di un popolo, è sempre stata considerata lecita, se pure a determinate e rigorose condizioni. Anche l’aborto terapeutico (dove cioè è in gioco la vita della madre) è considerato lecito. In entrambi i casi, comunque, occorre scegliere fra vite fra loro in drammatico conflitto: la vita dell’aggredito o quella dell’aggressore, la vita della madre o quella del concepito.

E ricordiamo che i martiri hanno anteposto la fede alla loro vita, o che antepongono la libertà alla vita, come Catone l’Uticense, che Dante non mette all’inferno, ma in purgatorio (“libertà va cercando, come sa chi per lei vita rifiuta”).

La morte per malattia oggi non è più “naturale”

Fino al XIX secolo si moriva per una di queste quattro cause: la violenza, la disgrazia, la fame, la malattia. Ed anche oggi si muore per le stesse ragioni, solo che oggi non le consideriamo più accettabili. Oggi la morte per fame è giustamente vista come una terribile ingiustizia e uno scandalo. La morte violenta la consideriamo una barbarie. Per ridurre il numero degli incidenti stradali o sul lavoro ci si si prova in tutte le maniere (senza peraltro riuscirvi).

E lo sviluppo delle scienze teoriche, delle tecnologie, della farmaceutica, della medicina hanno reso moltissime malattie prevenibili, affrontabili, curabili.
La morte “per malattia” non è più, nella maggior parte dei casi, un fatto “naturale”.

Chiunque entri in un ospedale, o abbia avuto la triste sorte di passare ore nel reparto di terapia intensiva accanto ad una persona cara, non ha visto all’opera la potenza della Natura, come capitava a Leopardi due secoli fa. Ha visto la potenza, seppure non assoluta e purtroppo non invincibile, della tecnologia applicata alla medicina e alla cura del corpo.
Paradossalmente, dire “morte naturale” vorrebbe dire firmare le dimissioni per uscire dall’ospedale, rinunciare alle terapie, “staccare” tutte le spine, le fleboclisi, i cateteri, le sacche di sangue o i flaconi di medicinali. Insomma, ritornare nel XIX secolo o prima: quando uno stava male, moriva.

Domande sulla libertà di cura… e di rifiutarla

Rifiutare una cura, ovvero chiedere di essere addormentati anziché curati – è morte naturale o morte procurata?

La Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’omicidio del consenziente.
Ha dichiarato che la vita è un valore non totalmente disponibile, ma nemmeno del tutto indisponibile.
Ma nella pratica reale:

  • aumentare o diminuire il dosaggio di un farmaco…
  • interrompere o proseguire una certa cura…
  • alleviare il dolore, ma con questo anche diminuire la resistenza contro il male…

Ed ancora, altri fattori, come

  • i costi dei medicinali,
  • l’età dei malati,
  • la gravità del male,
  • la finitezza delle risorse (per quanto grandi esse siano),
  • le necessità di sperimentare sul campo farmaci e cure (che spesso facciamo sperimentare ai poveri al di là del Mediterraneo).

“La” domanda: chi è l’essere umano?

Dobbiamo anche chiederci: chi è l’essere umano? Cosa intendiamo per persona? Substantia individua rationalis natura, diceva Boezio. E secoli dopo Mounier ci ha insegnato che “il mio corpo è più del mio corpo”, che la persona è un essere-in-relazione.

Insomma, non è vero che “io sono padrone (esclusivo) della mia vita”, che “la mia vita riguarda solo me”, che “(solo) io devo poter decidere se, come e quando vivere o morire”. Io appartengo anche ad altri, agli affetti vicini e lontani, al mondo intero, e per noi credenti anche a Dio. “Nessun uomo è un’isola”, scriveva il poeta…

Quanto alle “Disposizioni anticipate di trattamento” (DAT), restano pur sempre dei dubbi. Quello che decido oggi su ciò che potrebbe accadere fra vent’anni, lo scriverei davvero fra vent’anni quando poi la situazione precipita? O ancora, cosa fare se i progressi della medicina rendono non più valide pratiche mediche per le quali avevo posto, vent’anni prima, il mio rifiuto?

Sono domande e riflessioni che mi permetto di porre all’attenzione dei nostri illustri ospiti. Il giurista, il teologo canonista, il medico ci indicheranno con le loro parole non tanto soluzioni pret-à-porter, quanto spunti di riflessione, ulteriori interrogativi, tracce sulla via del pensare.

Guido Campanini