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Meroni. Ascoltare, e dare voce alle vittime della violenza per una reale ‘giustizia riparativa’

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Non si pensa mai abbastanza alle vittime della violenza. Anzi, negli anni del terrorismo come nel dopoguerra, e ancora oggi, non sono ascoltate, non sono accolte con tutto il loro dolore. Come si può dunque parlare di “giustizia riparativa”? Nell’ultima giornata del convegno nazionale Meic  “‘E liberaci dal male’ Percorsi di giustizia e di riparazione in questo tempo” che si è tenuto dal 24 al 26 marzo, il tema è stato posto sul tavolo da Silvia Meroni, docente e ausiliaria diocesana della curia milanese, autrice del ricco volume (351 pagg) su “Carlo Maria Martini e gli anni di piombo. Le fatiche di un vescovo e le voci dei testimoni”.

Uscito per le edizioni Ancora nel 2020 il libro nasce da una tesi di laurea sui 22 anni dell’episcopato di Martini che da vescovo di Milano ha vissuto tutti quegli anni di violenza, ma poi le pagine si sono arricchite delle voci delle vittime, in un ascolto che lo stesso Martini aveva vissuto e dal quale si è lasciato interrogare.

Le vittime della violenza vanno ascoltate-Silvia Meroni al convegno Meic Giustizia
Silvia Meroni (a destra al tavolo dei relatori) al convegno Meic Giustizia 2023


Silvia Meroni, hai scritto un libro sull’esperienza di Martini. Come è nato questo interesse?

“Questa è una domanda interessante, nel senso che nel 2008 un gruppo di studenti trentini aveva per la prima volta nella sua vita intervistato Vittorio Bosio, un medico di Como che durante l’attentato alla stazione di Bologna aveva perso la sorella, il cognato e il nipotino Luca di cinque anni. Questi studenti sono stati per me lo stimolo, perché avevo potuto partecipare a quelle interviste. Furono anche lo stimolo affinché è una vittima potesse raccontare per la prima volta nella sua vita, 28 anni dopo l’attentato, come questo trauma avesse segnato la sua esperienza”.

Cosa è scattato in te?

“Per me la domanda su come il cardinale Carlo Maria Martini avesse vissuto il rapporto con le vittime e con la violenza degli anni di piombo, ha le radici proprio in questo incontro che mi ha profondamente segnata perché mai avevo avuto percezione di tanto dolore da parte, appunto, delle vittime. Volevo cercare di capire come Martini si fosse posto e tutto è nato praticamente da qui. Da allora ho deciso, lentamente perché in realtà non è non è stato facile, di avvicinare le vittime e non in tutti i casi ci sono riuscita. Ma quello che ho trovato in verità è stato l’incontro con donne particolarmente preziose, molto credenti, che hanno cercato di rielaborare la loro vicenda personalmente e, posso dire, senza alcun rancore.

Tutto nasce dall’ascolto delle vittime

Quello che ho trovato incontrandole era sostanzialmente una grande sofferenza personale e una grandissima statura morale nell’avere avuto una forte volontà di crescere i figli senza trasmettere loro la rabbia per ciò che avevano vissuto ma piuttosto continuando a crescere nella linea che che era stata della loro coppia. Gli uomini uccisi in modo particolare negli anni ’80, erano figure scelte proprio per la loro professionalità proprio perché a servizio delle istituzioni dello Stato e quindi dentro la biografia della loro famiglia c’era una forte volontà di costruire effettivamente la democrazia, ispirandosi ai principi della costituzione. Ho trovato questo. Ho trovato in loro un grande dolore e anche una grande accoglienza perché, purtroppo, realmente per anni non sono state cercate da nessuno, non gli sono state chiesti racconti, non gli è stato chiesto come avessero fatto fronte anche al dolore che si è generato dopo il lutto”.

Nell’intervento di oggi hai parlato della grande attenzione che c’è stata verso gli autori dei crimini ma anche di questa dimenticanza delle vittime, da parte dello stato ma anche della Chiesa…

“Sì, e quello che mi sta a cuore dire è che ho trovato questo in Martini: per lui l’attenzione alle vittime non è stata semplicemente farle oggetto della sua attenzione, ma piuttosto dalle vittime stesse lui è stato lentamente cambiato. Certamente provocato dal loro dolore ma anche lentamente modificato. Un po’ come l’esperienza di Oscar Romero in Salvador che guardando negli occhi le vittime del regime vide le loro lacrime e, come racconta John Sobrino, raccogliere il loro dolore è stata per don Romero, come per Martini, una forte provocazione ad una sorta di conversione che i vescovi in modo particolare hanno vissuto ma io credo sia per tutti”.

Cosa hanno lasciato in te questi incontri con le vittime di violenza?

“Avvicinando le vittime ho riletto il vangelo in un modo differente e credo che proprio questa capacità delle vittime di essere soggetti del cambiamento della società sia un tema ancora non percorso, una strada ancora che merita di essere osata per i frutti che potrebbe dare.

Una strada da percorrere, per le vittime e per chi ha commesso violenza

Una strada che in un certo senso trasforma anche l’idea della della giustizia riparativa come qualcosa che parte da chi ha provocato la violenza. Paradossalmente proprio il rovesciamento di questa prospettiva e quindi partire dal dolore delle vittime potrebbe aiutarci anche a individuare sentieri percorribili affinché chi ha commesso violenza possa arrivare a riconoscere il danno provocato e, ci auguriamo, anche a immaginare sentieri umanamente più dignitosi per loro stessi”.

In sala hai concluso con una provocazione invitando a ripensare alla croce di Cristo dalla prospettiva delle vittime di violenza…

“Sì, la ripropongo volentieri riconoscendo il diritto all’autore che è Paolo Ricca, una figura che conosce la scrittura esattamente come Martini. Nel 1978, e questo mi ha colpito perché era il cuore degli anni di piombo, Paolo Ricca era stato capace di sottolineare che Gesù muore come vittima.

Ripensare alla Croce: Gesù muore vittima di violenza

Muore non di una morte naturale ma muore in virtù del fatto che è stato figlio di Dio che ha manifestato la volontà del padre. Ricca ci dice che proprio perché Gesù muore così dobbiamo guardare alla croce e alla Pasqua di Gesù con la convinzione che la maggiore forma di Giustizia di Dio è proprio la Risurrezione della vittima. Restituire la vita a colui che è stato ucciso è la condizione necessaria, per esempio affinché si possa chiedere alla vittima stessa di perdonare”.

Ascolta l’intervista