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Giustizia riparativa. Eusebi: è temuta dalle organizzazioni criminali

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“Giustizia riparativa, o meglio giustizia restaurativa, significa essenzialmente che non si risponde in termini di corrispettività alle fratture che sappiamo costruire nei nostri rapporti, ma si risponde in termini pur sempre orientati al bene, cioè a una ricostruzione che è disposta a rinunciare alla ritorsione per recuperare scelte di reciproco riconoscimento tra le persone che pure sono state coinvolte in una frattura, per esempio in un reato”.

Così è entrato nel tema del convegno il prof. Luciano Eusebi aprendo la seconda giornata del  convegno nazionale Meic  “‘E liberaci dal male’ Percorsi di giustizia e di riparazione in questo tempo” in svolgimento a Roma fino a domenica 26 marzo. 

Oggi però “il processo penale – ha aggiunto Eusebi, ordinario di Diritto penale all’Università Cattolica del Sacro Cuore – non consente un dialogo, quindi un approfondimento della realtà umana che sta a monte di determinate scelte, per quanto sbagliate”.

Vittime due volte

Questa mancanza, ha aggiunto Eusebi, “si ritorce anche a danno della vittima che nel processo non sente una risposta al suo bisogno di vedersi riconosciuto che quanto è accaduto è stata un’ingiustizia che non dovrà più accadere. E se la vittima riesce a sentire questo, non solo dalle parole ma anche dall’impegno della persona che ha provocato una qualche sofferenza, questo ‘riconoscimento’ pur non potendo cancellare – perché è impossibile – quello che è accaduto, rappresenta un elemento di pacificazione. Mentre se alla vittima si offre soltanto la ritorsione, con cui si afferma che quello che è accaduto è stato ingiusto, andiamo nel vicolo cieco di chiedere la massima ritorsione possibile per dire ‘questa cosa è stata grave’”.

Questa dinamica della massima ritorsione, però, ha come effetto, ha spiegato il docente di diritto penale, di rendere la persona offesa dal reato “vittima una seconda volta in quanto la obbliga, dopo aver sofferto per causa del reato, a diventare una persona che ricerca il male, il dolore, la sofferenza di un’altra persona”.

Giustizia riparativa o restauratrice di rapporti sociali

La giustizia restaurativa, invece, consente alla vittima stessa di uscire da questo “vicolo cieco” e di volere che “l’altra persona abbandoni per convinzione un’esperienza criminosa” e questo, ha aggiunto Eusebi, è importantissimo non solo per la vittima ma per la società perché l’abbandono dell’esperienza criminosa  “destabilizza le stesse compagini criminali e attesta, anche nel suo contesto di provenienza, un impegno in favore dei beni che sono stati lesi e un cambiamento di vita che qualche volta può avere anche alcuni elementi molto onerosi se non addirittura di qualche pericolosità”.

Giustizia riparativa: investimento di sicurezza per il paese

Non si tratta di essere buonisti, dunque, ma di fare un investimento di sicurezza per il paese, ovvero fare “prevenzione”.

“Quando la nostra Costituzione dice che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato fa un’affermazione strategica – commenta Eusebi – perché la Costituzione ci indica che la prevenzione non dipende dall’intimidazione o dalla neutralizzazione del condannato, ma dipende soprattutto dal motivare scelte personali, scelte libere, scelte convinte. Quindi il diritto penale forte è quello che anche attraverso le sanzioni che prevede, fa capire perché un determinato bene deve essere rispettato e non si limita a prevedere un contraccambio che rischia di avere la stessa natura negativa di quello che si vuole in certa misura contrastare. Nulla, del resto, rafforza sul territorio la credibilità e il ruolo della norma che è stata violata più del fatto che la stessa persona che l’ha violata torni a riconoscerne il valore attraverso anche un impegno personale”.

Le organizzazioni criminali temono la persona che ha il coraggio di dire no

Questo, sottolinea Eusebi, “è ciò che temono di più le organizzazioni criminali” le quali “più di una persona che sta per lunghi anni in carcere e resta quella che è, “temono la persona che ha il coraggio di allontanarsi dall’esperienza criminosa e di compiere un percorso, usando il termine forse un po’ antiquato della Costituzione, un percorso di carattere rieducativo che però sul territorio chiude posti di lavoro criminale perché delegittima nel contesto sociale l’attrattività dell’esperienza criminosa”.

“In fondo – aggiunge Eusebi –  l’organizzazione ‘ndranghetistica’ o mafiosa ha ucciso don Puglisi non perché materialmente contrastava i traffici ma perché, appunto, sul territorio toglieva attrattività ad una vita legata all’organizzazione criminale. Tutte le volte che noi recuperiamo una persona, noi consolidiamo l’ordinamento giuridico, mentre se ci limitiamo a ‘buttar via le chiavi’, come qualcuno dice, stiamo pur sicuri che l’esperienza criminosa che abbiamo impedito alle persone rinchiuse verrà raccolta da altre persone che prenderanno il loro posto”.

Giustizia riparativa: i passi avanti fatti nel nostro Paese

Eusebi ha fatto parte fa parte di commissioni di riforma del diritto penale ma questo approccio non è stato accolto fino in fondo dal legislatore.

“Il nostro ordinamento giuridico – spiega Eusebi – ha fatto dei passi in questo senso. Noi abbiamo un ordinamento penitenziario che per esempio consente, seppur con molte eccezioni, che la pena inflitta in sentenza possa avere delle rimodulazioni, sia nella durata complessiva sia nella modalità di esecuzione, a seconda dell’andamento del percorso rieducativo. Questo è molto importante anche perché i dati ministeriali ci dicono che chi fa questi percorsi ha tassi di recidiva molto inferiori di chi sconta la pena senza alcun percorso di progressivo reinserimento sociale. Oggi c’è ancora qualche passo in avanti perché la riforma Cartabia consente anche al giudice della condanna di poter trasformare le pene fino a 4 anni direttamente in detenzione domiciliare o in semilibertà, le pene fino a tre anni in lavoro di pubblica utilità, quelle fino a un anno in pena pecuniaria”.

La “pena” ancora concepita come “retribuzione”

“Ma quello che non si è mai voluto fare, ed è ciò che i penalisti da decenni richiedono, è – sottolinea Eusebi – superare l’idea che nel momento della condanna la pena deve essere sempre aritmetica, e quindi di fatto un corrispettivo in anni di reclusione o marginalmente in somma pecuniaria da pagare. Non si è mai voluto accettare che già nella sentenza di condanna la pena possa essere un percorso”.

Oggi è previsto per pene fino a 4 anni o per residui di pena fino a 4 anni, ma solo dopo una condanna definitiva che spesso richiede tre gradi di giudizio e poi un quarto presso il tribunale di sorveglianza con un affidamento in prova al servizio sociale, che spesso arriva dopo 4, 5 o 6 anni dopo il reato.

Il coraggio – che manca – alla politica

“Occorrerebbe invece avere il coraggio politico – ha concluso – di dire che già nel momento della condanna la risposta al reato, quella che chiamiamo pena, non necessariamente consiste in un corrispettivo detentivo o pecuniario, ma può essere un percorso che viene seguito dall’Ufficio di esecuzione penale esterna (UEPE), cioè dal servizio sociale dell’amministrazione della Giustizia. Questo ancora non l’abbiamo ottenuto, cioè non si riesce a scardinare politicamente l’idea che nel momento della condanna la pena di fatto è una retribuzione”.

E questo, aggiunge, “certamente è uno scoglio” perché se si superasse questo, cambierebbe anche il modo di intendere la pena detentiva “perché se la pena non necessariamente è un corrispettivo, allora anche la pena detentiva non va intesa come corrispettivo ma va intesa come un ‘percorso’ essa stessa, che inevitabilmente date certe condizioni di pericolosità richiede almeno per un certo tempo la privazione della libertà personale. E questo dovrebbe riguardare essenzialmente i casi in cui diversamente non è credibile il recidere un controllo dell’organizzazione criminale sulla persona agente di reato o quando c’è la constatazione di un rischio consistente della ripetizione di reati particolarmente gravi. Ma, ripeto, una volta che si dovesse superare l’idea della corrispettività anche il modo di intendere la necessità del ricorso alla detenzione cambierebbe il suo significato”.

Ascolta l’intervista a Luciano Eusebi