di TIZIANO TORRESI
Metà della popolazione mondiale è obbligata a rimanere in casa, da poco con qualche eccezione. Dei dati con i quali i mezzi di comunicazione descrivono il rapido sviluppo su scala planetaria della pandemia Covid-19 questo è tra i più impressionanti. Mentre medici e operatori sanitari lottano in prima linea negli ospedali di tutto il mondo, le pareti domestiche sono diventate la frontiera invalicabile per contenere la diffusione del virus. Restare in casa è divenuto per tutti un gesto necessario di responsabilità, un impegno civico, quasi un motto patriottico. Più semplicemente è la cosa giusta da fare. Ne è derivato un cambiamento radicale degli spazi attraverso i quali si svolgeva la vita che, sino a ieri, consideravamo normale. Nido degli affetti più cari, luogo della distensione, del riposo, di non violata intimità, lo spazio domestico è diventato improvvisamente il proscenio delle mille paure, una prigione per chi è solo, un fomite di tensioni che rischiano di compromettere gli equilibri familiari, in molti casi un rabberciato accampamento per un lavoro che, nonostante aggraziati anglicismi, si riduce a un quotidiano guazzabuglio.
Al fondo dell’angoscia generata da questa reclusione c’è però un dramma ancor più grande e decisivo. Non riguarda lo spazio. Riguarda il tempo. La verità è che l’improvvisa disponibilità di un tempo da vivere in modo completamente diverso da come eravamo abituati a fare ci ha sconvolti, più dell’isolamento fisico.
Sui pannelli luminosi delle stazioni ferroviarie, in agende piene di scadenze, a margine di telefonate smozzicate, su un orologio osservato in modo compulsivo: il tempo, sinora, non bastava mai. La lentezza era bestemmia. L’affanno per i mille impegni era un vezzo. Il puerile lamento per una vita febbrile era un modo per darsi un tono, per convincersi di contare qualcosa e di non esser soli a sgomitare nella convulsa maratona che chiamavamo vita. Vita piena di tutto, piena di niente. Sempre poco il tempo a disposizione!
Il tempo è a nostra disposizione? «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?» (Lc 12,20). Forse «in questa notte stessa» che stiamo attraversando non ci sarà richiesta la vita, ma l’opportunità di domandarci che uso facciamo del bene più prezioso. Non dovremmo sprecarla.
L’epidemia ci sbatte in faccia ciò che negli ultimi decenni l’umanità ha occultato, dimenticato, negato in tutti i modi: la fragilità dell’essere umano. La fragilità degli anziani e delle persone indifese. La fragilità delle menti estroverse e avide di informazioni, iperconnesse e tuttavia ipersensibili, vulnerabili al bombardamento dei media. La fragilità degli animi orfani del controllo su ogni gesto, di ogni scelta, in ogni ambito – dal meteo ai taxi, dalle calorie consumate alle mestruazioni – grazie a un telefono smart, prefisso sino a ieri irrinunciabile e ubiquitario, oggi metafora di un’illusione. Sotto questa coltre di ansie e di paure scorre, in realtà, la ritrovata consapevolezza della mortalità. Come ci ha ricordato il teologo Armando Matteo, il male più devastante della postmodernità è stato infatti quello di esorcizzare a tutti i costi la vecchiaia e, con essa, la morte. Questa follia è figlia della pretesa blasfema di essere i padroni del tempo. Ci è stato raccontato che abbiamo un tempo limitato a nostra disposizione, che non bisogna perderlo, che è felice chi ne è signore, chi lo divora a morsi senza subirne le conseguenze, nel mito di eterna giovinezza che è stata la tracotanza dell’uomo contemporaneo. Non è così. «Chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita?» (Mt 6, 27). Non è limitato il tempo a nostra disposizione. È limitata nel tempo l’opportunità che abbiamo di non lasciarlo trascorrere invano, di rendere questo breve passaggio attraverso il tempo, in cui si germoglia, si fiorisce e si muore, degno di essere vissuto.
Il tempo non ci appartiene anche perché non siamo separati dal mondo che ci ospita. Fragilità e mortalità reggono l’equilibrio del delicato tessuto del cosmo. Non siamo né soli né eccezionali, noi esseri umani. Non lo siamo dai nostri simili, e il virus ci ricorda che i confini disegnati sulle carte geografiche, i colori della pelle, le lingue che parliamo sono barriere fittizie. Ma non lo siamo rispetto a tutte le infinite e magnifiche creature che lottano per la vita, ogni istante, come noi. Siamo però i soli ad averne coscienza e perciò anche la responsabilità. E la responsabilità più grande, la sfida più importante domani – anzi oggi – è proprio quella di riavvicinare il tempo della storia a quello della vita, della biologia, delle stagioni, di accordare il respiro del lavoro, liberato dagli affanni impulsivi e dai bisogni indotti, con l’armonia che ci circonda ma alla quale eravamo diventati sordi. I delfini nel porto di Cagliari, le acque terse di Venezia e di Napoli, i cieli puliti in Valle Padana: è bastata una brevissima sosta a dimostrare che è ancora possibile riconciliare i ritmi del custode con quelli del giardino, che non è ancora detta l’ultima parola prima che il disastro si compia.
Per questo è tempo di dire basta ma anche di dire che il tempo, se sappiamo amministrarlo con intelligente lungimiranza e in comunione con la creazione, ci basta.