di SARA MILANO
Meic di Torino
Questo tempo di pandemia costringe la civiltà occidentale, che si sente da tempo invincibile grazie ai progressi della tecnologia e delle scoperte scientifiche, che ha goduto di un lungo periodo di pace e benessere, a fare i conti in maniera collettiva con la morte. Utilizzo appositamente il termine nudo e crudo, da tempo considerato inopportuno e disturbante, perché è ora di vedere chiaramente chi siamo, senza rimozioni, e di chiamare le cose con il loro nome. Siamo tutti esseri mortali, cioè destinati alla morte: è un fatto che va detto e accettato in tutta la sua pienezza e verità, senza edulcorazioni.
Nella prospettiva delle scelte di vita, anche a livello collettivo, probabilmente questo periodo di verità è più efficace di un mese di esercizi spirituali ignaziani. La vicinanza della morte mostra la verità: i nostri desideri e attaccamenti più profondi, verso il bene o verso il male, le nostre ferite e fragilità, i nostri punti di forza e le nostre risorse. Ci fa decidere se odiare gli altri e noi stessi per tutto questo o usare compassione e vivere ogni attimo come dono di gioia. Spetta a noi decidere, nella chiarezza, se scegliere il bene o il male.
Bisogna fare attenzione, però: oltre al senso del limite e allo svelamento, la morte porta con sé, inevitabilmente, la paura. Una paura che blocca, che chiude, non solo in casa, ma anche in sé stessi: ci si concentra ancora di più in questo periodo sui propri problemi e si tenta di esorcizzarla in vari modi. E’ del tutto umano e funzionale alla sopravvivenza.
Se però l’essere cristiani ha ancora un senso in questo mondo paralizzato dal virus, non è nelle dirette streaming di culti in solitaria, ma nell’accogliere e saper vivere, prima di tutto in prima persona, la paura della morte. E poi, se si riesce, aiutare altri a farlo.
Sta nel dire la verità su chi siamo, creature mortali su cui però la morte non ha l’ultima parola. Dobbiamo imparare e insegnare a dire, in sincerità e profondità, come San Francesco nel Cantico di Frate Sole: “Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare”.
Considerare persino la morte un dono non è un atteggiamento depressivo o rinunciatario, non sminuisce affatto la sacralità della vita terrena e il dovere della sua tutela fin dove umanamente possibile, neppure significa sfuggire dalle responsabilità e dall’impegno in questo mondo. Significa però accettare il nostro limite creaturale. Significa non fare della vita terrena l’ennesimo idolo ma sforzarsi di vivere la morte come dono di verità, di sé e degli altri. Vivere l’idea della propria morte e quella dei propri cari, per quello è, il passaggio, seppur estremamente doloroso, verso l’Amore.
Significa accettare come bene l’unico evento certo di ogni vita su questa terra, come ebbe dire il Cardinale Martini: “Mi sono riappacificato con l’idea di morire quando ho compreso che senza la morte non arriveremo mai a fare un atto di piena fiducia. Di fatto in ogni scelta impegnativa noi abbiamo sempre un’uscita di sicurezza. Invece la morte ci obbliga a fidarci totalmente di Dio” (Corriere della Sera 3.10.2008)
Questa è una delle lezioni che dobbiamo accettare da questo tempo di pandemia, una lezione molto dura, che viene da quello che gli esseri umani hanno sempre temuto e combattuto con tutta la loro energia e intelligenza. Fin dove si può. Poi i cristiani sanno che in un Altro la loro vita è al sicuro e in questo momento è una delle cose che dobbiamo testimoniare.
#DISTANTIMAUNITI
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