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L’ultima Parola

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di DON GIOVANNI TANGORRA

I vangeli del triduo pasquale offrono un intenso itinerario spirituale.
Si comincia dalla sera del giovedì santo, con la messa in coena Domini, che propone il brano della lavanda dei piedi (Gv 13,1-15). L’episodio umilia l’arroganza, e, come scriveva Romano Guardini, produce «il grande “rovesciamento dei valori”, la messa a nudo della meschinità di ogni forma di orgoglio».
Una geniale intuizione di Giovanni è di mettere il racconto lì dove i sinottici riferiscono l’istituzione dell’eucaristia. Il parallelismo risalta da alcune espressioni, come quando Gesù ordina che il suo gesto diventi un memoriale, dicendo: «Vi ho dato l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi». La cena in cui egli si fa cibo e bevanda, sarà quindi celebrata anche nel mistero di quest’episodio.
Esso fa capire che l’eucaristia non è solo un rito, ma la scelta di chi vive per amore. Lo indicano le parole iniziali: «Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine». A Giovanni non piace sprecare parole sull’amore, più che dissertare preferisce mostrare come Gesù ha amato. Sarà questa congiunzione, infatti, a guidare l’ultima disposizione: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (15,12). Il maestro ha amato diversamente, e il racconto della sua Pasqua ha lo scopo di dimostrarlo.
La prima prova è la lavanda dei piedi.
Gesù compie i gesti del servo di casa: si cinge di un asciugamano, versa l’acqua in un catino, e comincia a lavare i piedi degli amici, asciugandoli con il panno che aveva ai fianchi. Lo stupore ammutolisce i discepoli. Solo Pietro si ribella: «Signore […], tu non mi laverai i piedi in eterno!». Come si fa a dargli torto?
Lo chiama “Signore”, e ha in mente il messia trionfatore.
Il fermo immagine su Pietro spiega il significato del racconto. Gesù non spettacolarizza il gesto e lo compie nell’intimità del cenacolo. Sta insegnando come essere Chiesa e come i discepoli dovranno risolvere le proprie relazioni, e cioè lavandosi i piedi l’un l’altro. Come a dire: se non sapete risolvere i rapporti tra voi, cosa pretendete di fare fuori di voi? Pietro rappresenta le istituzioni, e deve essere il primo a dare l’esempio.


Il Venerdì santo la comunità si raccoglie nel digiuno, per stare vicina al suo maestro. È un digiuno anche eucaristico, perché non si celebra la messa, sostituita da una liturgia della Parola, che propone la passione secondo Giovanni (18,1-19,42). È il racconto dell’«ora», in cui la rivelazione di come lui ha amato, raggiunge il vertice.
L’evangelista si sofferma sui processi, mettendo in scena lo scontro con le autorità stabilite verso le quali Gesù non si era certo mostrato remissivo. Adesso è nelle loro mani. Anche qui c’è un effetto deludente. Egli frustra le attese di un messianismo politico e oppone al pragmatismo degli inquisitori il potere della verità che salva. La scena termina con lo sguardo muto del re coronato di spine. Risuona l’ecce homo: ecco la verità in cui ognuno può riflettersi e trovare se stesso.
Punto di arrivo del racconto giovanneo è 19,34: «Uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua». C’è dell’accanimento in questo gesto, simbolo della voracità dell’odio, che può diventare insopportabile, dilaniante. È la radice di tutti i mali. Ciò che tuttavia stupisce è che anche un corpo morto ha ancora qualcosa da elargire: sangue e acqua. I padri vi hanno visto la nascita della Chiesa, di noi tutti.
Sulla collina ormai in cenere restano tre croci. Il messia non muore solo, ma con tutte le vittime del mondo, diventando come loro. Don Primo Mazzolari coglieva l’emozione del momento: «Se hai cuore, fratello, con un’occhiata leggi tutto, abbracci tutto, non puoi lasciare fuori nessuno perché nessuno è fuori dell’Amore inchiodato sul Legno».
Nella liturgia del venerdì santo, la comunità adora la croce con la delicatezza di un bacio, come si fa con chi ti ama senza chiederti nulla in cambio. La croce è però anche un legno scomodo, che inchioda il mysterium iniquitatis. Non si può adorarla ed essere causa di male, perché Lui non muore per consacrare la sofferenza, bensì per riscattarla e sopprimerla.
Nella notte dell’amore trafitto, il Dio crocifisso china il capo e muore, propter nostram salutem. È la lezione di chi non ha parlato di solidarietà dalla cattedra di un’accademia, ma nella polvere della condivisione.


Nel punto in cui una vita finisce, mani taciturne depongono un corpo morto in una tomba, sigillandola con una pietra. La Chiesa caratterizza il sabato santo come giorno a-liturgico, l’unico dell’anno senza nessun tipo di celebrazione. Gli altari sono spogli e senza ornamenti, le candele sono spente, le campane mute.
Tutto si svuota e tace, anche le croci.
È il silenzio della morte, di cui la nostra cultura ha gran paura, e che si sforza di rimuovere. Eppure c’è qualcosa capace di scaldare anche una lastra tombale: la speranza.
La comunità giunge alla notte che sant’Agostino definiva «la madre di tutte le veglie». Ci si appresta per la celebrazione eucaristica più importante dell’anno, ricca di riti evocativi: il fuoco, la luce, l’acqua, il cero pasquale. Il preconio scandisce il ritmo dei simboli: «O notte beata, tu sola hai meritato di conoscere il tempo e l’ora in cui Cristo è risorto. Di questa notte è stato scritto: la notte splenderà come il giorno».
Dopo aver allenato l’ascolto con un lungo elenco di letture, la messa notturna della Domenica di Pasqua propone Lc 24,1-12, dove risuona la frase: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto». Non tutti riusciamo a trovare Cristo, ma la vera domanda è: dove andiamo a cercarlo? Il Vangelo dice che non è tra i morti. Destinatarie dell’annuncio sono le donne, e a loro è dato il privilegio della prima testimonianza. Un’altra donna compare nel Vangelo del giorno: Maddalena, la ricercatrice tenace che si reca al sepolcro con il cuore in tempesta (Gv 20,1-9).
«Raccontaci, Maria: che hai visto sulla via?».
È difficile parlare di risurrezione e la Chiesa ne ha quasi rimosso l’annuncio, isolando il crocifisso. Eppure san Paolo ha scritto: «Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra fede» (1Cor 15,14). Non sono il dolore o la morte ad avere l’ultima parola, e i cristiani sarebbero solo da compiangere, in quanto discepoli di un messia fallito.
Pasqua vuol dire passaggio. Dove possiamo allora trovare il Risorto? Lì dove si passa dalla morte alla vita, dal peccato alla grazia, dal vecchio al nuovo. Quando i frammenti si ricompongono, la paura si disperde, e avverti la gioia di ricominciare: allora sai che la vita del Risorto sta agendo dentro di te.
Auguri!