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#DISTANTIMAUNITI Cinque parole per riflettere su Eucarestia e coronavirus

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PRESIDENZA NAZIONALE MEIC

In questi giorni si è fatta molto viva la discussione intorno alla nota della CEI che lamentava il permanere del divieto di celebrazioni liturgiche, in un quadro di progressiva apertura di molte attività: produttive, commerciali, culturali, sportive. E noi pure abbiamo ospitato nel nostro sito il commento di Luigi D’Andrea che analizza sinteticamente alcuni aspetti posti da questa lettera.

Desideriamo qui aggiungere altri elementi di riflessione, con l’intento non tanto di dire una parola a favore o contro l’una o l’altra posizione emersa, ma di offrire qualche spunto alla comune ricerca.

Se c’è infatti un’esigenza che emerge, agli occhi e alla mente di chi osserva le cose con maggior profondità, oggi a circa due mesi dall’inizio di questa fase emergenziale, non è tanto quella di trovare i modi per ritornare dove eravamo, dimenticando il più in fretta possibile questa parentesi drammatica del nostro vivere, ma di capire meglio la lezione che essa ci sta impartendo, di interpretarne i segni. Si tratta cioè di rileggere l’esperienza umana e credente in rapporto a situazioni che gettano una nuova e differente luce su problemi che pur erano nella nostra agenda, ma che non avevamo la capacità di porre come priorità.

Comprendiamo bene che ci sia una pressante richiesta di aprire le nostre chiese, soprattutto per celebrare l’Eucaristia, e particolarmente dopo aver vissuto i giorni della Pasqua del Signore ognuno segregato nelle proprie case. E che occorra fare ogni sforzo per riunire la comunità cristiana intorno alla mensa eucaristica.

Ma in questa situazione non val la pena farci qualche domanda in più, e interrogarci su quale senso abbia l’Eucaristia e la preghiera comunitaria nella vita dei credenti? La pandemia sta mettendo alla prova la nostra fede, ma nello stesso tempo ci esorta, come un maestro severo, a riscoprirne il nucleo essenziale. Ci siamo abituati da molti secoli a vivere, nel nostro Paese, nell’abbondanza religiosa (tante chiese, tante celebrazioni, tanti presbiteri), in una situazione di piena libertà e talvolta anche di privilegio. E lo abbiamo fatto senza sforzarci di capire perché a questa ricchezza abbia corrisposto un diradarsi delle presenze e della frequentazione.

Le nostre celebrazioni, per quanto molti responsabili si impegnino a renderle partecipate e vive, rimangono spesso un’esperienza individuale che si alimenta di una forte connotazione sacrale, frutto anche di una catechesi inadeguata. E quando, in situazioni eccezionali, non si riesce a vivere queste esperienze liturgiche, si prova un senso di deprivazione, una mancanza di ossigeno spirituale, anche una sorta di ribellione verso chi non è in grado o non vuole garantirci comunque il loro svolgimento. Quasi che esse siano un bene spirituale cui abbiamo naturalmente diritto, che non può essere sacrificato a nessun altra esigenza.

Desideriamo porre allora questi 5 punti alla riflessione di chi ci legge, senza la presunzione di dire parole definitive, ma per sollecitare un confronto reciproco:

  • essere privati della possibilità di celebrare l’Eucaristia per un lungo tempo situa i credenti in una condizione di assenza: assenza della comunità che si riunisce e che fa festa insieme, assenza dei segni che rinnovano il mistero pasquale, assenza della mensa eucaristica. Un sabato santo che si protrae, di cui non abbiamo certezza della durata e che ci può sgomentare. Ma dischiude anche, per ognuno di noi, la grande possibilità di capire la profondità della fede che crediamo, perché messa alla prova. La pandemia obbliga a misurarci con la nostra interiorità: “nel silenzio c’è la potenza della chiarificazione, della purificazione e della comprensione dell’essenziale” scriveva Dietrich Bonhoeffer in “Vita comune”. Il silenzio di piazza san Pietro attraversata da Papa Francesco che cammina verso Cristo crocifisso per affidare a lui la povertà della nostra condizione umana è potente non per una semplice suggestione estetica, ma per il valore simbolico di questo gesto, che va al cuore della nostra fede e non lascia insensibile anche chi non crede;
  • il silenzio e la solitudine di questi giorni per molti cristiani sono inquietanti perché rappresentano un vuoto che non si riesce a colmare se non si ripristinano le condizioni di prima, con i riti di prima, con la vita liturgica di sempre, con un’esperienza di Chiesa sempre uguale a se stessa e gratificante spiritualmente. Ma silenzio e solitudine possono essere, all’opposto, anche una grande occasione per mettersi all’ascolto della Parola, letta dentro questa situazione, in cui ognuno, indipendentemente dalla sua condizione, si rivela in tutta la sua fragilità e povertà, e scopre che c’è una grande speranza di salvezza, di liberazione; dopo il sabato santo c’è la gioia della Risurrezione. Qualche gruppo (anche del MEIC) in queste settimane ha scelto di non partecipare a celebrazioni eucaristiche on line, ma di condividere esperienze di lectio divina, riscoprendo anche una nuova dimensione comunitaria;
  • questa pandemia ci costringe a fare i conti con una condizione che per molti credenti è invece la normalità (in varie parti della terra), e sollecita laici e presbiteri a pensare forme nuove con cui vivere l’esperienza di fede. Non solo trasmissioni di messe, o di altri momenti liturgici e catechistici, con dirette social o televisive, ma in modo più sostanziale, come ha fatto notare Serena Noceti, riconoscendo “nella casa e nella famiglia un vero luogo ecclesiale, promuovendo celebrazioni domestiche, predisponendo sussidi per liturgie della Parola, con linguaggi e gesti propri della ritualità familiare, con estrema creatività, accettando le logiche del digiuno eucaristico e insieme l’inedito di questa esperienza ecclesiale, nel desiderio mai nascosto del tempo per poter tornare a celebrare insieme l’Eucaristia”. Potremmo anche spingerci oltre, a pensare e sperimentare incontri di spiritualità che si aprano a chi sta sulla soglia della comunità ecclesiale, e che ha difficoltà, per molte ragioni, a varcarla; perché i cercatori di Dio sono più numerosi di quanto spesso pensiamo;
  • questa esperienza faticosa, se da un lato chiama noi laici ad un ripensamento del nostro compito di servitori e di annunciatori della Parola dentro i luoghi della nostra vita, pone in egual misura molti interrogativi sul ruolo dei ministeri ordinati. Abbiamo la consapevolezza che tanti presbiteri vivono questi mesi come una parentesi anomala in attesa di poter nuovamente celebrare i sacramenti e presiedere le proprie comunità come hanno sempre fatto. In realtà questa immersione in un tempo eccezionale ha messo a nudo l’esigenza di valorizzare tutte le responsabilità che si generano dal Battesimo, riconoscendo nuove forme di ministerialità, e in cui anche il presbiterato deve essere ripensato per superare un modello che ha ancora molti riferimenti tridentini per aprirsi in pienezza alle prospettive dischiuse dal Concilio Vaticano II. Non è una questione che riguarda solo i preti, o i vescovi, o i teologi, ma l’intero popolo di Dio, invitato a guardare in faccia un mondo nuovo;
  • non possiamo infine dimenticare che l’Eucaristia è comunque sempre viva nel servizio alla comunità degli uomini; non esiste Eucaristia senza lavanda dei piedi, senza rapporto di prossimità con l’altro, con il povero. Obbligati a mantenere distanze fra noi, a coprirci parte del volto, questo tempo ci chiama a ripensare il senso della relazione. Comprendiamo quanto determinante sia condividere la stessa situazione e dover essere responsabili della salute degli altri per salvaguardare anche la nostra salute: indossare le mascherine chirurgiche non ci protegge completamente dal virus, ma serve soprattutto a proteggere gli altri che vivono attorno a noi. Questa non è solo una regola igienistica, ma la metafora di un modo radicalmente diverso di concepire i rapporti interpersonali, la politica, l’economia, le relazioni internazionali, il rapporto con la natura: per salvare me devo aver attenzione all’altro, come ci richiama da tanto tempo l’insegnamento di papa Francesco. Non è, e non può essere un’utopia, la prospettiva di qualche visionario, ma un progetto che accomuna tutti gli uomini e le donne di buona volontà, e sul quale vorremmo ancora, come associazione, e con tanti altri amici, riflettere, approfondire, promuovere iniziative nei mesi che ci stanno davanti.