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Non un furto, ma un dono

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La morte ci ricorda che la vita non è un possesso: non lo è di fatto né di diritto. Essa necessita ed è resa possibile da uno scambio continuo di tempo, cose, gesti, parole, che diventa scambio di vite e persone, ricevute e rimesse in circolo, in un debito e un credito inestinguibili

Stefano Biancu
vicepresidente nazionale del Meic

La pandemia ci ha costretti a un rapporto nuovo con la morte. Una esposizione continua alla possibilità della morte, e a una morte in solitudine per mano di un nemico insidioso e invisibile, ci ha costretti a un rapporto al quale, come collettività, non eravamo più abituati. È come se le immagini delle terapie intensive e dei camion militari carichi di bare ci avessero risvegliati da una rimozione collettiva: non solo la morte rappresenta una certezza per ogni vivente, ma essa costituisce anche una possibilità sempre aperta. Tradizionalmente relegata in alcuni luoghi a parte – ospedali, camere mortuarie, cimiteri – la morte è tornata di prepotenza al centro della nostra vita, individuale e sociale. E ora non possiamo non farci i conti.

L’esperienza della morte – nostra o di una persona amata – è quella di un furto irreversibile, irreparabile, senza restituzione né possibile compensazione. Se giustizia è dare a ciascuno il suo, la morte è l’ingiustizia per eccellenza, dato che essa toglie a ciascuno ciò che è più propriamente “suo”: gli toglie sé stesso o ciò o chi costituisce il suo mondo e il senso di quel mondo. La morte è ingiusta in quanto toglie a ciascuno ciò che è così profondamente “suo” da costituire sé stesso. In questo la morte è assurda. Lo è nel senso più proprio del termine: una stonatura che mette a rischio la musica della vita (absurdus significa propriamente “stonato”).

La morte è incomprensibile e immotivata: possiamo spiegare come avviene, ma non perché debba avvenire. Zygmunt  Bauman l’ha definita «una conoscenza cui non si può credere» e, in questi termini, essa mi pare rappresenti l’opposto stesso dell’idea e dell’esperienza di Dio, al quale si può eventualmente credere, ma senza poterlo mai conoscere.

In questa prospettiva, la morte non è semplicemente la sconfitta della vita, ma la sconfitta della logica stessa che sorregge e rende possibile la vita. La morte è in senso tecnico uno scandalo: un inciampo che ostacola e rende impossibile la vita. Se dunque la conclusione della vita appare al contempo assurda e ingiusta, lo è di conseguenza anche la vita?

Forse dovremmo riconoscere che quella fine irreparabile e irrimediabile può – perlomeno a certe condizioni – non essere totalmente ingiusta e assurda. Ciò si verificherebbe laddove la morte, invece di togliere a ciascuno il suo, si riveli capace – a certe condizioni – di rendere a ciascuno il suo, ovvero di restituire ciascuno a sé stesso e, invece di ostacolare la logica della vita, sia capace di restituire un senso possibile alla vita.

Non si tratta di addomesticare la morte, depotenziandone la portata di radicale rottura, ma di lasciarla parlare: di lasciare che essa ponga i suoi interrogativi e interpelli la vita umana

Non si tratta di addomesticare la morte, depotenziandone la portata di radicale rottura, ma di lasciarla parlare: di lasciare che essa – proprio attraverso l’interruzione che produce – ponga i suoi interrogativi e interpelli la vita umana. In altri termini: non si tratta di depotenziare la morte affinché essa non disturbi e non interrompa la vita umana, ma di fare sì che essa – disturbando e interrompendo la vita – la costringa ad abbandonare una certa logica e la consegni a un’altra logica che la restituisca a sé stessa: le tolga qualcosa per restituirla a sé stessa.

Vladimir Jankélévitch ha illustrato questa dinamica al contempo frenante e propulsiva della morte parlando di essa come di un «organo-ostacolo»: l’essere umano vive «nonostante» la morte, ma anche «in quanto» è mortale. La morte è per lui al contempo l’«impossibile» e il «necessario», «impedimento» e «condizione». L’interruzione della morte ci interpella radicalmente e ci restituisce a noi stessi.

Non è un caso che proprio dalla morte nasca tutto il mondo umano. Nasce la cultura, la quale – come già Giambattista Vico osservava – si costruisce a partire dalle grandi istituzioni della vita sociale: i matrimoni, le sepolture e le religioni. In particolare, sono le sepolture a dare nome al mondo umano: «da humando, seppellire» deriva l’«Humanitas».

Dalla morte nasce anche la filosofia, se è vero – come affermava Emanuele Severino – che il «thaûma» da cui secondo Aristotele ha origine la filosofia non è da comprendere semplicemente come «meraviglia» – nel senso di un semplice stupore intellettuale – ma è lo stupore angosciato, lo sgomento e il terrore dell’uomo dinanzi alla morte.  Anche Freud si è espresso su questa linea: «Non un enigma intellettuale e non una morte qualsiasi, bensì il conflitto emotivo di fronte alla morte di una persona amata […] ha dato corso all’umana ricerca. Da questo conflitto è nata tutta la psicologia».

Possiamo spingerci fino a sostenere che dalla morte nasce l’etica stessa, se è vero che vulnerabilità e mortalità sono condizioni della nobiltà di quelle virtù che elevano l’essere umano oltre il livello della mera sopravvivenza: coraggio, perseveranza, magnanimità d’animo, generosità, devozione alla giustizia.

Ecco che la morte è l’organo-ostacolo del mondo umano: tutto ciò che è più propriamente umano è frutto di questa radicale interruzione.

La morte ci ricorda che la vita non è un possesso: non lo è di fatto né di diritto. Essa necessita ed è resa possibile da uno scambio continuo: uno scambio di tempo, cose, gesti, parole, che diventa scambio di vite e persone. Non uno scambio mercantile e neppure uno scambio semplicemente disinteressato, ma uno scambio interessato al riconoscimento reciproco e alla relazione. La vita è un dono, ricevuto e rimesso in circolo, nel contesto di un debito e di un credito inestinguibili. Ed è a questa legge dello scambio che occorre conformarsi per vivere realmente.

Tale legge non costituisce né una soppressione malinconica della vita – una rinuncia alla sua positività – né l’espiazione di una presunta colpa dell’essere nati, la quale è invece tipica di una certa mentalità sacrificale.  Si vive nella misura in cui non ci si preoccupa di salvaguardare la propria esistenza dall’insidia continua della morte – assicurandosi e garantendosi contro di essa – ma rimettendo continuamente in circolo la vita che si è ricevuta. Secondo questa legge, anche la fine può essere un inizio. Se non potrà essere altro, la morte sarà un lasciare il posto a qualcun altro. Non un furto e uno strappo, ma un dono che genera e lascia essere.

Insomma, proprio il confronto con la morte può rivelare la struttura nascosta di ogni vita. L’ha espresso bene Josef Pieper: «Non si possiede che ciò che si abbandona, e si perde ciò che si cerca di conservare – rendersi conto di questo, e di niente altro, è ciò che si esige dall’essere umano, per la prima e ultima volta, al momento della sua morte».