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Comunicare è difficile, accompagnare necessario

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La cura della comunicazione clinica e delle relazioni è oramai supportata da forti acquisizioni normative, scientifiche, etiche e deontologiche. Una buona comunicazione in medicina e l’accompagnamento dei pazienti, specialmente quelli a fine vita, sono un dovere professionale e un atto di giustizia

Maura Bertini
pneumologa, gruppo Meic di Varese

«Di’ tutta la verità ma dilla obliqua / Il successo sta in un Circuito / Troppo brillante per la nostra malferma Delizia / La superba sorpresa della Verità / Come un Fulmine ai Bambini chiarito / Con tenere spiegazioni / La Verità deve abbagliare gradualmente / O tutti sarebbero ciechi»  (Emily Dickinson)

«Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura» (Legge n. 219/2017, articolo 1, comma 8)

La comunicazione

«Dì’ tutta la verità ma dilla obliqua». Mi affido alla poesia di Dickinson per aprire questa riflessione sulla comunicazione clinica: è un modo per parlare della cura nell’ultima parte della vita, dato che in questa circostanza la comunicazione risulta particolarmente delicata e richiede attenzione e professionalità.

Da molti anni dedico la mia attività medica riabilitativa alla cura di persone con Sclerosi Laterale Amiotrofica e altre malattie degenerative. Si cercano adattamenti e ausili per compensare le perdite funzionali (ad esempio nel parlare, mangiare, muoversi e respirare), si mettono a disposizione competenze per aiutare le persone a convivere con la disabilità e a mantenersi aperte alle relazioni.

In questi casi la comunicazione diventa essenziale al punto che la “cura” non può dirsi tale se non si instaura una comunicazione sufficientemente buona tra persona malata-familiari-operatori sanitari. Si pensi alle scelte terapeutiche che possono incidere molto sulla vita delle persone già provate dalla malattia avanzata.

Dipendere da una macchina per respirare, nutrirsi artificialmente tramite sonda, comunicare attraverso minimi movimenti residui, necessitare di altri per ogni gesto quotidiano: queste condizioni hanno un altissimo impatto sulla vita personale e familiare.

Anche “comunicare la verità” può avere grande influenza sulla vita del paziente ed è compito deontologico del medico. Certamente contenuti e stile comunicativo fanno la differenza e possono fare della comunicazione un processo personalizzato piuttosto che una sentenza. Il come della comunicazione si esercita e si affina, richiede una ricerca e un monitoraggio continui e un lavoro personale e d’équipe per ridurre il rischio di autosufficienza e autoreferenzialità. Comunicare è uscire da sé (andare verso l’altra/o) ma anche entrare in sé e ri-scoprirsi alla luce delle relazioni con persone malate, familiari, colleghe e colleghi.

Dire la verità ma dirla obliqua significa tenere conto della sensibilità, della storia, della situazione psico-fisica ed emotiva delle persone, prepararsi al colloquio, esercitare un ascolto attivo, curare i contenuti ma anche la comunicazione paraverbale e non verbale, lasciare che il/la paziente orienti gli obiettivi di cura. La veritàinsomma deve passare dal crogiolo della relazione.

Aggiungo che siamo tentati di pensare a una verità, quella che il medico dice al malato (ad esempio con una diagnosi). C’è il retaggio di una cultura paternalista in questo? Credo proprio di sì. In realtà sappiamo che la comunicazione non può e non deve essere unidirezionale. Corriamo però il rischio di sorvolare sulla componente che dal paziente (e dal familiare) procede verso il medico.

Meglio sarebbe parlare di verità al plurale. Sì, perché in una relazione di cura coesistono la verità della persona malata, dei familiari, dell’infermiere, del medico e così via.  In un’ottica di cura partecipata, la composizione delle “verità” è auspicabile. Tra l’altro non si tratta di punti di vista giustapposti. C’è dell’altro, c’è interdipendenza.

Ogni incontro ci interpella e ci cambia, non si può prescindere dalla relazione tra le parti, con attenzione centrata sulla parte più importante, il paziente! Facilitare la libera espressione della persona è uno degli obiettivi della cura: preferenze, desideri, ciò che dà senso alla storia personale. L’interdipendenza permette di lavorare su obiettivi condivisi e favorisce, pur nei limiti, il sostegno alla persona malata e la realizzazione delle sue volontà.

Un approccio narrativo con ascolto dei racconti personali, al di là dell’anamnesi classica, è auspicabile per comprendere le volontà e rafforzare il legame fiduciario. In ordine alle scelte terapeutiche, può favorire soluzioni e sciogliere impasse.

Per un approfondimento su narrazione e medicina in un’ottica sistemica, rispettosa della persona, segnalo volentieri Medicina narrativa. Onorare le storie dei pazienti (Raffaello Cortina edizioni, 2019) di Rita Charon, docente alla Columbia University.

La medicina narrativa non deve essere considerata come un’alternativa all’impostazione medica tradizionale. Medicina narrativa e medicina basata sulle evidenze costituiscono due facce di un medesimo poliedro e l’una implica l’altra.

Certo, personalizzare non è semplice anche perché burocrazia, ottica prestazionale e obiettivi di budget non ci aiutano. Aiutano un buon lavoro in équipe, imparare a convivere con l’incertezza, a gestire i conflitti e la complessità del reale.

In conclusione la cura della comunicazione clinica e delle relazioni, rientra a pieno titolo nella cura della professionalità. C’è un’ampia e consolidata cornice normativa nazionale (in primis il dettato costituzionale) e internazionale e ci sono forti acquisizioni scientifiche, etiche e deontologiche a suffragio di ciò. Una buona comunicazione in medicina è un dovere professionale e un atto di giustizia.

Il tempo

«Il tempo è superiore allo spazio»: così in Evangelii gaudium (nn. 222-225) papa Francesco invita a uno stile aperto al futuro, fiducioso nell’avviare processi, poco interessato all’occupazione di spazi, libero dall’ossessione dei risultati, capace di fare i conti con le situazioni avverse e con i cambiamenti imposti dalla realtà.

Trovo utile un parallelismo con ciò che è auspicabile avvenga nelle relazioni di cura. Avviare “processi di comunicazione” con il paziente, coltivare nel tempo il rapporto operatori-familiari-volontari sono cose (forse) difficili da attuare in reparti per malati acuti ma sicuramente più facili da realizzare (e già realizzate in parte) nelle cure palliative e in riabilitazione, al domicilio delle persone malate, nelle residenze sanitarie assistenziali e nei centri residenziali per persone con disabilità.

Nella co-costruzione di un percorso di cura insieme a una persona affetta da patologia cronica avanzata o degenerativa, il tempo permette gradualità e adattamenti e, se ben utilizzato, aiuta a creare l’humus in cui possono maturare le decisioni. Le difficoltà legate alla malattia possono in alcuni casi devastare le relazioni ma non sempre è così.

Nel tempo si può maturare la scelta di un fiduciario o di un amministratore di sostegno, si sceglie chi dovrà occuparsi dell’assistenza concreta, si rinforzano i legami. Sono possibilità.

A proposito del tempo non posso non citare un modello organizzativo che inizia a diffondersi  (seppur faticosamente) anche in Italia: le Cure simultanee. Si tratta della precoce integrazione delle cure palliative con le cure specialistiche (oncologiche, neurologiche, pneumologiche, cardiologiche, nefrologiche, riabilitative eccetera) per consentire la presa in carico congiunta ab initio in modo da mantenere la continuità e globalità dell’assistenza lungo tutto il percorso di malattia.

Questa modalità di presa in carico ha dimostrato di garantire una migliore qualità di vita del paziente e della famiglia (controllo dei sintomi fisici, miglioramento di ansia e depressione) e incremento della sopravvivenza. Ha inoltre determinato una transizione migliore verso il fine vita. Diversi approcci sono quindi integrabili per umanizzare le cure e per cercare di dare corpo al testo della legge n. 219 del 2017 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”.

Per quanto riguarda le malattie progressive e invalidanti si legga, sulla pianificazione condivisa delle cure (Pcc), il capitolo quinto.

La mia esperienza nel campo della Pcc, si è arricchita grazie alla pratica clinica, al confronto con colleghi e associazioni di malati e grazie alla supervisione di Mario Picozzi, docente di bioetica all’Università dell’Insubria. Sono stati avviati processi di consapevolezza e di autoefficacia degli operatori, dei cittadini (singoli e associati), si è discusso in incontri pubblici anche nelle parrocchie. Si è diffusa l’idea che è importante parlare, al momento opportuno, del fine vita ed è utile informarsi e confrontarsi negli spazi di aggregazione sociale.

Comprendere e parlare di questi temi in famiglia, tra amici, con il medico, è molto importante: affrontare la questione della propria fragilità e della morte è un modo per fare verità sulla vita

E al tempo della pandemia?

Emergono ulteriori difficoltà legate alle conseguenze della pandemia sull’organizzazione sanitaria. Anche se la gestione dell’emergenza assorbe quasi tutte le energie, stiamo organizzando anche la “convivenza” con il coronavirus anche nelle situazioni di fragilità e complessità che si avviano al fine vita. È prioritario, anche in questo tempo, affrontare la questione dell’accompagnamento e della comunicazione negli ultimi anni/mesi/giorni della vita.

Ne abbiamo bisogno ancor più di prima, poiché si aggiungono difficoltà pratiche legate alle misure preventive (pensiamo ad esempio al problema della limitazione della presenza familiare nelle strutture sanitarie).

È altresì prioritario che l’investimento di risorse sulle cure in acuto sia accompagnato da progettazione e potenziamento della sanità domiciliare, partendo dalle situazioni complesse.

Infine, comprendere e parlare di questi temi in famiglia, tra amici, con il medico, con le persone di fiducia è anche un percorso di conoscenza di sé e di ricerca spirituale, è un ricapitolare la propria vita e le relazioni: affrontare la questione della propria fragilità e della morte è un modo per fare verità sulla vita.

Lascio come testimonianza la parte finale della lettera di Giulia Facchini Martini allo zio, il cardinale Carlo Maria Martini, pubblicata su La Stampa il 4 settembre 2012. Queste parole e ancor più l’intera lettera (disponibile sul sito della Fondazione Martini) possono costituire fonte di ispirazione e vera preghiera.

«Grazie zio per averci permesso di essere con te nel momento finale. Una richiesta: intercedi perché venga permesso a tutti coloro che lo desiderano di essere vicini ai loro cari nel momento del trapasso e di provare la dolce pienezza dell’accompagnamento».