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La morte non ha volto ma ne ha tanti

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La Rivelazione mostra come il morire trovi la sua ragione profonda e la spiegazione ultima nel mistero della vita e della morte di Gesù. Che non consiste nella realizzazione dell’immortalità, ma che mostra come soltanto attraverso l’accettazione di questo limite estremo sia possibile il suo superamento

Cataldo Zuccaro
teologo morale, rettore emerito dell’Università Urbaniana

«Qualcuno muore: volto che diventa maschera. L’espressione svanisce» Sono le parole con le quali E. Lévinas descrive la mancanza di espressione del cadavere, la sua inerzia, il suo essere stato e non esserci più. In realtà, il discorrere sulla morte talvolta diventa un tentativo di mascherarne la realtà, poiché la si oggettivizza e la si riduce ad una cosa, così da poterla dominare, esaminare, spiegare, comprendere. E questo con buona pace del filosofo francese che, invece, nella morte riconosceva il paradigma più alto di un’alterità che resiste ad ogni tipo di addomesticamento. Il volto è l’espressione irriducibile della persona e non si può duplicare, come la maschera che, invece, si può moltiplicare all’infinito, perché è anonima (Anonymous). Ma la morte è davvero una maschera che nasconde il volto e l’unicità della sua espressione?

La cronaca drammatica della pandemia del Covid-19, di fatto ci ha messi a contatto ogni giorno con la morte. Le immagini che sono passate sugli schermi hanno suscitato emozioni e reazioni. I bollettini fatti di numeri e di geografie non ci hanno, però, tratto in inganno. Tutti abbiamo percepito con chiarezza e commozione che, dietro il sostantivo plurale delle morti, ci sono state persone che hanno vissuto quell’evento. In realtà, se esiste la morte è perché esiste chi la vive, giacché solo la morte appartiene allo statuto del cadavere, ma il morire, è sempre un atto del vivente e di un vivente che si trova all’interno di una rete di relazione. Non si può sottrarre il morire al vivere, perché non esiste una vita senza morte. Non si può sottrarre il vivere al morire, perché non esiste una morte senza vita. Occorre andare oltre «l’idolatria della vita» e «l’idolatria della morte».

Pertanto si potrebbe dire, rovesciando la convinzione di Epicuro: quando ci sono io c’è la morte; quando io non ci sono ancora o quando non ci sono più allora non c’è nemmeno la morte. È stato il grande Agostino, tra gli altri, a mettere in luce come l’evento della morte non è mai impersonale, soprattutto quando a viverlo è una persona cara. Conviene riportare le sue parole a commento della morte dell’amico: «Qualcuno ha detto bene del suo amico, che era metà dell’anima sua. Io sentivo infatti che la mia e la sua erano un’anima sola in due corpi: perciò la vita mi faceva orrore – io non volevo vivere a metà – e perciò mi faceva paura la morte, con cui sarebbe morto ormai del tutto anche lui, lui che avevo molto amato» (Agostino, Confessioni, IV).

Di fronte alla pretesa di esorcizzare persino il pensiero dell’evento del morire, questa pandemia ci ha brutalmente ricordato la nostra fragilità e la nostra precarietà. Mentre la cultura dell’efficienza e del successo spesso induce in noi un delirio di onnipotenza, prolungamento della tentazione di Adamo di giocare a farsi Dio, la pandemia rivela in un colpo solo il nostro limite: siamo degli eterni mortali. Si è fatto un gran parlare di emergenza, e a ragione. Ma, interpretata all’interno di un’antropologia dell’indigenza, della fragilità e della vulnerabilità, l’emergenza è connaturata di fatto alla condizione della persona; non si può vivere una vita socialmente strutturata, oltre che personale, senza tenerne conto. Ciò che si ignora è la forma in cui di volta in volta essa si manifesta, ma è un grave errore pensare che ci sarà un momento in cui saremo del tutto al di fuori dell’emergenza.

Emerge oggi la consapevolezza di una fragilità e una precarietà costituzionali della persona, anche se espresse in forme e modalità diverse per ciascuno. Così, non diventa centrale la considerazione delle patologie minori o maggiori che hanno caratterizzato la morte delle persone affette da Covid-19, e nemmeno la loro età. La vecchiaia, infatti, «è una malattia metafisica e non localizzata […] se ne può frenare apparentemente la marcia, ma assolutamente non si può portare indietro un processo che in ogni caso rimane inesorabilmente progressivo» (V. Jankélévitch, La mort, Flammarion, Paris 1977, p. 192). Siamo stati sollecitati a ripensare i criteri della scelta etica in tempo di pandemia e in condizione di emergenza. Ma abbiamo confermato contestualmente la convinzione che la dignità della persona non si può schiacciare sulla contingenza della sua condizione fisica o della sua età. In realtà, l’uomo «non muore per il fatto di essersi ammalato, ma gli capita di ammalarsi perché fondamentalmente è destinato a morire» (cfr. M. Foucault, Naissance de la clinique: une archéologie du regard médical, PUF, Paris 1963).

La distanza è uno strumento per evitare il diffondersi della pandemia, e quindi, a dispetto della parola, è la riscoperta di un modo di vivere la relazione, e diventa quasi un atto di amore

La congiuntura di questa pandemia ha lasciato emergere un altro aspetto: la solitudine del morente. È un fenomeno messo in risalto da tutti, quello dell’impossibilità delle ultime carezze per i propri cari, delle ultime parole sussurrate, delle ultime preghiere. Per converso, ciò che è accaduto ci fa sentire più di prima l’esigenza di accompagnare i propri cari fino al limite estremo del promontorio di questa vita terrena, varcato il quale si entra nella dimensione dell’eternità. Dovrebbe farsi strada il dubbio che, anche in condizioni di normalità, la morte sia eccessivamente medicalizzata, privando il morente della possibilità di abitare da vivo e in modo responsabile la fine del suo tempo.

C’è una solitudine del morente, che è determinata dall’abbandono e dal disinteresse di coloro che sono chiamati a prendersi cura di lui. Una solitudine che chiama in causa la responsabilità della coscienza delle persone e delle strutture della società da esse costruite. C’è anche una solitudine che è costitutiva dell’evento del morire, in quanto nessuno può vivere come propria la morte dell’altro e nessuno può accompagnarlo nel passaggio dall’altra parte della sponda. In questo senso, come cantava De André nel Testamento, anche se «amammo tutti l’identica donna, partimmo in mille per la stessa guerra […] quando si muore si muore soli».

Ma questa pandemia ha scoperto un altro tipo di solitudine, quella necessaria perché legata alla responsabilità per un bene più ampio, quasi un atto di amore che va oltre i confini degli affetti più cari. La distanza è infatti uno strumento per evitare il diffondersi della pandemia; e quindi, a dispetto della parola, è la riscoperta di un modo di vivere la relazione. Talvolta la realtà si percepisce meglio se vista da vicino; altre volte, però, essa esige un’osservazione a distanza necessaria per collocarla all’interno di un contesto più ampio.

La Rivelazione di Dio mostra come gli aspetti legati al morire, brevemente accennati, trovino la loro ragione profonda e la loro spiegazione ultima nel mistero della vita e della morte di Gesù. È qui che l’uomo scopre il senso ultimo della sua dimensione creaturale, che si esprime nella finitezza e nel limite propri della sua condizione. Nella lettera ai Filippesi 2,6-11, l’apostolo Paolo mette a confronto l’atteggiamento di Adamo e quello di Cristo. Il primo, pur essendo uomo mortale, vuole vincere il limite della morte rivendicando l’immortalità e riscattando la sua autonomia dalla dipendenza di Dio. Gesù, al contrario, pur essendo Dio, ha vissuto la morte fino in fondo, accettandone il limite proprio di ogni uomo, in obbedienza alla volontà del Padre e nel servizio di amore verso i fratelli peccatori. Da una parte, il sogno di sempre di vincere la morte attraverso l’immortalità, cioè bypassando l’esperienza del morire, dall’altra parte, invece, la discesa nelle profondità della morte per vincerla dal di dentro, mediante la risurrezione. Il senso della morte di Gesù non consiste nella realizzazione dell’immortalità, perché la morte continua ad essere eredità di ogni uomo. La sua vicenda manifesta, piuttosto, che soltanto attraverso l’accettazione del limite estremo della morte è possibile il suo superamento. In questo senso, Gesù esprime disperatamente il desiderio più profondo della natura umana: quello di non morire e, ancor più, quello di non morire di morte crudele, prima dell’ora. Si spiega così il fatto che mentre «Socrate salutò la morte con un canto di un cigno, Gesù invece è morto con un grido» (E. Jüngel, Morte, Queriniana, Brescia 1972, p. 83).

Ma proprio questa comunanza di destino con ogni uomo nella morte rende credibile la speranza della risurrezione: «Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione» (Romani 6,5). La speranza nella vittoria della vita sulla morte nasce proprio dall’interno del lacerante «abisso metafisico dell’abbandono di Dio» che il seguace di Cristo sperimenta, come è accaduto al maestro. Alla fine, e come risultato di una vita donata per il bene degli altri, Gesù trova la morte in croce che, momentaneamente, segna la sconfessione e lo scacco di quel modo di vivere. Vista la fine che ha fatto, sarebbe difficile pensare che la sua impostazione di vita abbia avuto un grande successo; al contrario è palesemente andata incontro al fallimento. Ma proprio all’interno di questo evento disastroso della morte in croce è scritto il germe della vittoria sulla stessa morte, vittoria che diventa manifesta nell’evento della risurrezione.

Quest’ultima non va considerata come un doppio salto mortale rispetto alla vita e alla morte che l’hanno preceduta; in qualche modo ne è il prolungamento interpretativo. Infatti, già dentro la vita vissuta in obbedienza alla volontà del Padre e donata ai fratelli era presente, in germe, la sconfitta della morte. Se quindi il logos scritto dentro una vita donata è quello della morte per consumazione e, a sua volta, quello scritto dentro questo modo di morire è quello della vita, allora si può comprendere che il logos della risurrezione è già scritto dentro il morire per gli altri. Ecco perché sicuramente finché c’è vita, c’è speranza, e ancora di più finché c’è speranza, c’è vita. Ma soprattutto, finché c’è amore, c’è speranza e c’è vita.