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SEI PAROLE PER IL DOMANI La scuola di cui abbiamo bisogno

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di MARINELLA VENERA SCIUTO

Il lockdown stabilito dai governi come strategia di contrasto all’avanzare della pandemia causata dal covid-19 ha coinvolto, da fine febbraio, anche il mondo della formazione. Le ripercussioni sullo stato psicologico della popolazione scolastica non sono indifferenti. Da una indagine statistica effettuata su un campione di 10.000 studenti è emerso che è sereno solo il 21% di loro. Il restante 79% attraversa tutte le “passioni tristi” di spinoziana memoria: si definisce stressato il 23,3%, depresso il 14,9%, confuso il 13,4%, triste il 12,5% e, infine, apatico il 10,5% (altro il restante 4,8%). La “mancanza di scuola” sta generando preoccupazione e ansia nel 56,5% degli studenti unita alla preoccupazione, nel 46,6%, per il peggioramento delle condizioni economico-finanziarie della propria famiglia come conseguenza dell’emergenza sanitaria. La risposta delle istituzioni formative allo stato di emergenza è stata la didattica a distanza che è stata assimilata alla didattica digitale. Dopo l’iniziale diffidenza e, in qualche caso, rifiuto, da parte dei docenti, specie più anziani nello stato di carriera, e aver toccato, sul versante opposto, giudizi entusiasti da parte dei docenti più giovani e attrezzati digitalmente, con il passare del tempo, essa sta rivelando tutte le sue criticità. Dal punto di vista degli studenti invece il cambiamento repentino della modalità didattica non ha prodotto effetti problematici rispetto al rapporto con il docente, visto che per il 28% degli studenti intervistati, questo è cambiato in meglio, mentre per il 45% è rimasto uguale. Per il 27% invece è cambiato, ma in peggio. Ora, è indubbio che il cambiamento del setting di comunicazione, da “reale” a “digitale”, ha mutato non solo il medium ma il contenuto della pratica didattica. Gli specialisti si sono infatti adoperati nell’individuare degli accorgimenti pedagogici che consentano di evitare di travasare la metodologia in presenza in quella digitale. Occorrerebbe per esempio valorizzare la dialettica della domanda e della risposta in modalità “capovolta”, ossia dal discente al docente, partire dall’esperienza personale dello studente (dai 3 ai 18 anni) che non si trova più nel suo contesto “naturale” del gruppo classe dei suoi pari, privilegiare i compiti di realtà rispetto ai “compiti per casa”; adattarsi al passaggio, che non è solo strumentale, dalla penna alla tastiera ossia utilizzare una didattica autenticamente digitale e non solo a distanza nonché approfondire la capacità di ricerca delle fonti nel web fornendo strumenti critici di analisi e selezione delle informazioni disponibili. Gli spazi del pensiero critico sono dunque aperti anche nella modalità nella “scuola ai tempi del covid-19”, senza però dimenticare che la didattica a distanza, una volta finita l’emergenza, potrà tornare ad essere una risorsa aggiuntiva ma mai sostitutiva dell’atto dell’educare. La scuola è infatti, per definizione, il luogo dove si sta insieme con i docenti, con i compagni di classe, con le altre figure professionali; dove ci si emoziona per un verso, per una traduzione, per un teorema, per un concetto finalmente intuito. Dove ci si innamora, dove si ride, si scherza e qualche volta si piange; dove si è concentrati e silenziosi, dove si fa chiasso e anche, magari durante la ricreazione, si urla. Dove si realizza quel processo essenziale per la specie umana che si chiama insegnamento-apprendimento che può avviarsi solo se si stabilisce una “erotica dell’insegnamento”, in cui il docente non è un trasmettitore ripetitivo di nozioni ma colui che genera processi di ricerca autonomi da parte del discente attraverso l’uso variabile della parola, la mimica del volto, la gestualità, la prossemica. Tutti elementi che devono essere purtroppo sacrificati nella didattica digitale.

È prevedibile che la memoria del più lungo quadrimestre della storia repubblicana lasci traccia nelle prossime generazioni di studenti. Tuttavia, speriamo che venga ricordato e riconosciuto lo sforzo, definito “eroico”, compiuto dai docenti che, sostenuti dalla collaborazione dei loro studenti e delle loro famiglie, hanno assicurato la continuità del servizio del diritto all’istruzione, uno sforzo compiuto non per mero adempimento del senso del dovere – peraltro espletato fuori dai vincoli contrattuali – ma per amore del ruolo che essi incarnano quali soggetti insostituibili di un rinnovato patto intergenerazionale. Nella fase “pre-covid”, erano diventati purtroppo assai frequenti gli episodi, in diverse scuole della penisola, di conflitti tra studenti, spalleggiati spesso dai loro genitori, contro i loro docenti, sempre più demotivati e frustrati, umiliati anche economicamente. Forse non è illusorio augurarsi che nell’agenda della fase “post-covidiana”, dopo il ripensamento del sistema sanitario nazionale e la ripresa dell’apparato produttivo del Paese, trovi adeguata attenzione istituzionale e culturale lo stato in cui versa l’intero sistema della formazione italiano, dalle scuole dell’infanzia all’università, fin qui fortemente penalizzato dall’aziendalizzazione forzata, dalla pesante burocratizzazione del processo formativo, dall’enfasi sulla scuola delle competenze, dalla riduzione delle ore di storia del curricolo liceale, deprivato delle risorse necessarie per ampliare le opportunità di apprendimento degli studenti provenienti dalle diverse fasce sociali, pensando soprattutto a quelle più deboli, penalizzati anche nella dotazione tecnologica digitale, come ha proprio svelato l’emergenza covidiana. Potrebbe essere il momento di aprire finalmente la stagione degli “stati generali” della scuola italiana.

(da “Coscienza” 1-2/2020)

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