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Montini e Romero, due canonizzazioni che ci interpellano

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05 Ottobre 2018

di STEFANO CECCANTI

Il 14 ottobre in piazza San Pietro ci saranno due santificazioni che si inseriscono particolarmente nei caratteri del pontificato di Francesco, quelle di Paolo VI e di monsignor Romero.

Una prima riflessione è d’obbligo: la contemporaneità di queste due scelte è del tutto fisiologica?

A prima vista sì, trattandosi di due persone morte a poca distanza, 1978 e 1980. Eppure questa risposta non è convincente. In generale, trattandosi di papi, l’arco di qualche decennio, con qualche pontificato di mezzo, è più che ragionevole. E questo non tanto per i meriti dei singoli, o per i legittimi desideri di tanti, ma perché oggettivamente l’eccessiva vicinanza rischia di fatto voler bloccare il cammino del popolo di Dio, santificando e rendendo quindi più difficilmente modificabili anche scelte molto contingenti, che magari lo stesso papa di cui si vuole dichiarare subito la santità considerava tali, legate a un ben preciso contesto.

Questa saggia prudenza, quasi sempre rispettata, è invece poco giustificabile in altri casi. Ci siamo infatti spesso chiesti, sin da quei tragici giorni del 1980, perché non si dovesse fare santo subito un arcivescovo ucciso da uno squadrone della morte mentre celebrava l’Eucarestia. E infatti molti cominciarono a ritenerlo tale, “San Romero d’America”, anche a prescindere dai suoi specifici insegnamenti, dalle sue scelte pastorali.  Siamo quindi in questo caso in presenza di un indubbio ritardo e su questo vale la pena di riflettere, non per amore di polemiche, ma perché, forse, dagli errori si può imparare.

Da qui la seconda riflessione: perché quel ritardo nel riconoscere ciò che a molti era evidente sin da subito? Qui dobbiamo immergerci nel particolare clima dei primi anni ’80. Non c’è dubbio che la scelta di Giovanni Paolo II rappresentava anche e soprattutto la sfida finale al sistema sovietico, la scelta di accelerarne il declino già in corso per via pacifica e il tentativo di riallargare l’Europa ricomprendendo Paesi forzosamente esclusi. Un disegno di libertà e di liberazione, anche se in buona parte del mondo c’era ancora chi non aveva capito l’impossibilità di un cambiamento dall’interno di quelle realtà. Ovviamente nessun processo storico è mai lineare e la domanda che allora alcuni si ponevano era tutt’altro che ingenua: scoperchiando la divisione di Yalta troveremo una nuova unità oppure in quei Paesi riemergeranno gli odi nazionali, le forme autoritarie che quasi ovunque avevano preceduto le sedicenti democrazie popolari? Gli anni recenti ci hanno fatto capire quanto quelle domande fossero purtroppo serie, ma quel processo di liberazione, dopo le vicende polacche, non si poteva comunque rimettere nella bottiglia dopo che il tappo era saltato. Il punto è però che in quel contesto molti erano tentati di leggere tutto il contesto mondiale solo con un’unica chiave di lettura, quella Est-Ovest, quello dell’epicentro dello scontro europeo.  Sulla base di questo schema ideologico la testimonianza della Chiesa latinoamericana dopo il Convegno di Medellin del 1968, che aveva proposto in un altro contesto una diversa istanza di liberazione, superando modelli eurocentrici, era del tutto incomprensibile. Anche di fronte a uno dei suoi frutti più maturi: un arcivescovo la cui vita è sacrificata durante il sacrificio dell’Eucarestia. Non solo quindi non si giungeva a una beatificazione e a una santificazione, ma sul momento quel nome, quelle esperienze erano vissute da molti con imbarazzo. Citazioni, articoli e libri su Romero erano visti con sospetto, anche quando pubblicati da case editrici cattoliche molto tradizionali, come l’Ave dell’Azione Cattolica, che fu meritoriamente tra le prime a pubblicare testi originali tradotti. Recensioni erano sconsigliate. Ovviamente anche in questo caso è evidente che i processi storici erano contraddittori: così come dalla Polonia dell’opposizione al regime scaturivano il cattolicesimo democratico e liberale dei laureati cattolici del Kik-Pax Romana (l’organizzazione internazionale di cui fanno parte la Fuci e il Meic) con Tadeusz Mazoviecky e quello preoccupante che oggi sorregge il partito di governo Pis, così anche dal mondo delle lotte di liberazione latinoamericane potevano sorgere sinistre democratiche come quelle del Brasile e regressioni come quelle del sandinismo ufficiale del Nicaragua. Anche lì, peraltro, poteva sorgere l’idea sbagliata di rileggere il mondo alla luce solo della propria esperienza come se, capovolgendo lo schema pre-conciliare, si potessero esportare le teologie della liberazione anche nella ben più complessa Europa ricomponendo una rigida unità sotto un segno diverso.

Quello che insegna invece l’errore del ritardo su monsignor Romero è la necessità dell’apprendimento per differenza, degli insegnamenti che si possono trarre da esperienze che ci possono illuminare, ma che sono costitutivamente diverse. Il mondo è policentrico ed anche la Chiesa non ha bisogno di un’unica chiave di lettura, di un’unica teologia o di identiche opzioni pastorali.

In questo senso, terza e ultima considerazione, ci aiuta anche l’ultimo biennio di Paolo VI, quello tra 1976 e 1978, un prezioso biennio di disgelo ecclesiale e politico. Esso, per volontà del Papa e sotto la regia di mons. Bartoletti segretario della Cei, col convegno “Evangelizzazione e promozione umana”, archiviò le lacerazioni legate al referendum sul divorzio del 1974 e il successivo biennio di reazione difensiva, con diversità di posizioni in materia per definizione opinabile come una legge di uno Stato di una democrazia pluralistica (avremmo poi saputo negli anni successivi con le ricerche di padre Sale della Civiltà Cattolica che quella lacerazione si era già prodotta a proposito della proponibilità della costituzionalizzazione dell’indissolubilità del matrimonio al momento della Costituzione tra la diplomazia vaticana e il Presidente del Consiglio De Gasperi). Chi ha avuto la fortuna di formarsi in quegli anni e in quelli immediatamente successivi ha avuto la fortuna di misurarsi con un clima straordinario di libertà e di pluralismo, che era anche legato alla politica di solidarietà nazionale di Moro e Zaccagnini, all’idea di svolgere una funzione di unità, ricomponendo l’intero sistema dei partiti lungo le scelte europea ed atlantica che nel 1947 erano state divisive e che oggi, purtroppo, tornano in discussione per altra via.

In questo senso, in modi diversi, entrambe le santificazioni ci parlano. Ci interpellano molto.