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Come restituire un senso alle parole

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Traccia della relazione introduttiva della XI Assemblea nazionale

di ANTONIO PIERETTI

Uso l’iPhone e frequento i social network,
ma la sera all’e-book preferisco un libro
(D. De Kerckhove)

Prese per se stesse, cioè nella loro realtà grafica o fonetica, le parole sono soltanto segni che rinviano ad altro. Acquistano un senso quando coinvolgono colui che le usa e sono impiegate in vista di un obiettivo o di uno scopo ben determinato. In questo caso, infatti, implicano un’intenzione che riflette stati d’animo molto diversi e può avere effetti imprevedibili, comunque tali che non lasciano indifferenti quanti sono chiamati in causa. In fondo, le parole attivano un processo che rispecchia, in colui che parla e in coloro che ascoltano, prese di posizione, scelte e modalità di comportamento che incidono sia sul piano individuale che su quello collettivo. Sotto questo profilo, non è assolutamente vero che lo strumento usato per comunicare è semplicemente un mezzo; al contrario è un fattore fondamentale ai fini della comprensione della realtà e della qualità dei rapporti intersoggettivi.
Parafrasando Marx, possiamo dire che oggi c’è un nuovo spettro che si aggira nel mondo: la rete. Nata dallo sviluppo in senso vertiginoso della tecnica, si è imposta come la condizione imprescindibile dell’esistenza umana, in tal modo tutto passa per la rete (così almeno sembra) e, poiché essa non ha alcuna protezione, se non di ordine meccanico, tutto ciò che da essa è accolto è automaticamente legittimato a diventare di dominio pubblico. Questo vale non solo sul piano dell’informazione, ma anche sul piano delle opzioni, delle scelte e quindi dei valori. Il mezzo, indipendentemente dallo scopo a cui risponde, ci istituisce così come semplici utenti, benché ci dia l’illusione di essere partecipi o protagonisti di un evento.
Il consumo in comune di internet infatti non equivale ad una esperienza reale: ciò che nella rete si scambia, quando non è una quantità incontrollata di informazioni, è essenzialmente una realtà personale che non diventa mai una realtà condivisa. Lo scambio, come sostiene Anders, ha un andamento solipsistico, dove un numero infinito di «eremiti di massa» comunicano le vedute del mondo quale appare dal loro eremo, separati l’uno dall’altro, chiusi nel loro guscio come i monaci di un tempo, ma con la differenza che non intendono rinunciare al mondo, bensì che non vogliono perdere, «per l’amor del cielo, nemmeno una briciola del mondo in effige». La casa reale, con le sue quattro mura e i suoi quattro mobili, «è ridotta a un container per la ricezione del mondo esterno», il quale però viene a ciascuno di noi soltanto in forma di immagine.
Così, con l’aspirazione ad essere in rapporto con tutti, ci condanniamo a fare i conti con il fantasma del mondo. Ma, se si preferisce essere esposti non al mondo, ma alla sua visione o «essere digitali», il mondo, come scrive Negroponte, può diventare illeggibile per overdose di informazione e l’uomo può perdere la capacità di dare senso alla propria esistenza.
Quanto detto ha forti ricadute sul piano psicologico, dove produce una vera e propria patologia che ricerche recenti hanno puntualmente evidenziato sia a proposito di internet sia a proposito di cellulare. Inoltre il trionfo della rete, connesso al mito della globalizzazione e del mercato mondiale, ha drammatici effetti anche sul piano economico, dove la finanza, avendo la possibilità di svilupparsi in senso virtuale e non reale, finisce con l’ipotecare ogni sfera della vita umana.
Cosa fare di fronte a queste minacce che appaiono sempre più inaggirabili, ammesso che resti ancora qualcosa da fare. Innanzitutto occorre prenderne coscienza, rendersi conto dei rischi che vi sono impliciti e quindi rispondere alle sfide che ne derivano con la riproposizione di una scelta etica che, senza rinnegarle, ne orienti l’impiego e lo indirizzi verso il rispetto e la valorizzazione della dignità umana. La prospettiva che si apre con il trionfo della rete oggi risuona per tutti come la chiamata che un giorno mosse Abramo a lasciare la sua casa, la sua terra, il suo popolo per diventare colui che sospende la morale terrena in nome di una morale più alta che tutto riscatta e tutto valorizza. D’altro canto, non si tratta di rinnegare le tecnologie e quindi i linguaggi oggi dominanti, ma piuttosto di restituirli al ruolo che più gli appartiene e di farne strumenti per la liberazione dell’uomo da nuove e imprevedibili forme di schiavitù.

La traccia del prof. Pieretti (da InformaMEIC 5/2011)