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L’Italia raccontata dalla canzone d’autore

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di UMBERTO RONGA

Ci arriva dal consigliere nazionale Umberto Ronga (e pubblichiamo volentieri) un contributo alla riflessione sul 150° anniversario dell’Unità d’Italia che comparirà sul prossimo numero della rivista fucina Ricerca (3-4/2011) e che è apparso anche sul sito www.fuci.net. L’articolo di Ronga propone un taglio decisamente originale: una lettura delle vicende nazionali attraverso la canzone d’autore. (ndr)

«Lei sfogliava i suoi ricordi, le sue istantanee, i suoi tabù» (Rino Gaetano, Aida, in Aida, 1977). Immagini, contraddizioni, denunce, dolori e speranze nei versi di poesie accordate su note senza tempo. È l’Italia raccontata dalla canzone d’autore. Come le pagine di un libro o il diario di un lungo viaggio, la musica degli chansonneurs italiani «[…] fatta con sette note essenziali e quattro accordi cuciti in croce […]» (F. Guccini, Una Canzone, in Ritratti, 2004) sa interpretare meglio di qualunque altra i sentimenti, le lacerazioni, le meraviglie del nostro Paese. Consegna a ciascuno quel «[…] manifesto che puoi riempire con cose e facce da raccontare, esili vite da rivestire e storie minime da ripagare» (F. Guccini, Una canzone, cit.), rendendolo al tempo stesso osservatore e protagonista di una storia anche lontana nel tempo.

«Figlio, senza domani, con questo sguardo di animale in fuga e queste lacrime sul bagnasciuga che non ne vogliono sapere» (F. De Gregori, L’abbigliamento di un fuochista, in Titanic, 1982). È l’Italia delle emigrazioni: «Figlio, con un piede ancora in terra e l’altro già nel mare, con una giacchetta per coprirti ed un berretto per salutare [Figlio] che avevi tutto e che non ti mancava niente, che andrai a confondere la tua faccia con la faccia dell’altra gente» (F. De Gregori, L’abbigliamento di un fuochista, cit). Milioni di italiani espatriano alla ricerca di fortuna. Il ritratto è quello di un giovane fuochista in partenza sulla “nave dei sogni”, il Titanic, descritto dagli occhi tristi di una madre, che non potrà mai più abbracciarlo. Il corso di una storia che si ripeterà. Storie senza nomi. Ma anche storie con nomi e volti ben precisi. Come quelli di Sacco e Vanzetti, due onesti emigranti italiani, condannati alla pena di morte: «Il ventidue di agosto a Boston in America Sacco e Vanzetti van sulla sedia elettrica. E con un colpo di elettricità all’altro mondo li voller mandà» (F. De Gregori – G. Marini, Sacco e Vanzetti, in Il fischio del vapore, 2003). Due italiani perbene, un fabbricante di scarpe l’uno e un rivenditore di pesci l’altro, anarchici per convinzioni politiche, vittime più del pregiudizio che dell’errore giudiziario, la cui memoria è stata riabilitata soltanto dopo la morte «[…] e tutto il mondo intero reclama la loro innocenza, ma il presidente Fuller non ebbe più clemenza […]». Giustiziati nel lontano 1927, sono morti inneggiando all’Italia, il Paese da cui erano partiti in cerca di un destino migliore «Addio amici, in cor la fé, Viva l’Italia […]» (F. De Gregori – G. Marini, Sacco e Vanzetti, cit.). Storie per molti ancora sconosciute. E che, invece, andrebbero meditate per meglio capire le nostre origini e giudicare diversamente le sfide che i “ricorsi storici” oggi ci ripropongono.

«[…] E mentre marciavi con l’anima in spalle, vedesti un uomo in fondo alla valle, che aveva il tuo stesso identico umore, ma la divisa di un altro colore». È l’Italia della guerra. Le impietose contraddizioni del secondo conflitto mondiale narrate attraverso l’immagine di un soldato che marcia impaurito contro un suo simile. Il primo inno alla pace nella storia dell’antologia musicale italiana. Un tributo d’amore per l’uomo, quello di un giovane militare che decide di morire per non uccidere «[…] e se gli sparo in fronte o nel cuore soltanto il tempo avrà per morire, ma il tempo a me resterà per vedere […] gli occhi di un uomo che muore. […] Cadesti a terra senza un lamento e ti accorgesti in un solo momento che il tempo non ti sarebbe bastato a chieder perdono per ogni peccato» (F. De Andrè, La Guerra di Piero, in Volume III, 1966). Testi che narrano i dolori della guerra ma anche le lacerazioni di un Paese profondamente diviso: da una parte gli entusiasmi comuni nell’Italia del “ventennio” – «[…] Mio padre aveva un sogno comune condiviso dalla sua generazione […]» (F. De Andrè – F. De Gregori, Le storie di ieri, in Volume 8, 1975) – dall’altra il ravvedimento di tanti colpiti da lutti insopportabili – «[…] troppi morti lo hanno tradito, tutta gente che aveva capito […]» (F. De Andrè – F. De Gregori, Le storie di ieri, cit.). Giovani soldati strappati all’affetto delle madri o all’amore di giovani spose: «Era partito per fare la guerra per dare il suo aiuto alla sua terra […] Ma lei che lo amava aspettava il ritorno di un soldato vivo [e non] di un eroe morto. Che ne farà, se accanto, nel letto, le è rimasta la gloria di una medaglia alla memoria?» (F. De Andrè, La ballata dell’eroe, in Volume III, 1968). Persone di ogni età mortificate sin nell’intimo della propria dignità di esseri umani da quella vicenda insopportabilmente drammatica che si chiama olocausto: «Ad Auschwitz c’era la neve e il fumo saliva lento» (F. Guccini, Auschwitz, in Folk Beat n.1, 1967). Il canto straziante, il pianto, l’interrogativo innocente di un bambino deportato e morto ad Auschwitz: «Son morto con altri cento, son morto ch’ero bambino, passato per il camino e adesso sono nel vento […] Io chiedo “come può un uomo uccidere un suo fratello?”» (F. Guccini, Auschwitz, cit.).

Ma anche la guerra terminerà. È il 1943: l’armistizio di Cassibile consegnerà una pace “separata” ad un’Italia profondamente divisa. Da una parte gli oppositori del regime, morti per conquistare una libertà diversa; dall’altra il sogno di tanti giovani riuniti a Salò nel nome di un progetto in cui avevano creduto: «[…] E anche adesso è rimasta una scritta nera sopra il muro davanti casa mia […] ma i cavalli a Salò sono morti di noia, a giocare col nero perdi sempre […]» (F. De Andrè – F. De Gregori, cit.). L’immagine di quell’Italia è descritta da un cuoco in servizio presso un grande albergo a Salò – «[…] anche un cuoco può essere utile in una bufera, anche in mezzo a un naufragio si deve mangiare […]» – testimone delle troppe contraddizioni di quanti bivaccano «[…] io mi chiedo che faccia faranno a trovarmi in cucina […]» mentre altri vanno a morire «[…] quindicenni sbranati dalla primavera, scarpe rotte, eppure gli tocca di andare […] Qui si fa l’Italia e si muore, dalla parte sbagliata, in una grande giornata si muore, in una bella giornata di sole […]» (F. De Gregori, Il cuoco di Salò, in Amore nel pomeriggio, 2001).

Anche questo capitolo, seppur dolorosamente, terminerà: «Viva l’Italia. L’Italia liberata» (F. De Gregori, Viva l’Italia, in Viva l’Italia, 1979) è l’immagine di un Paese finalmente vivo. È l’Italia del dopoguerra, libera dall’oppressione della dittatura, desiderosa di scoprirsi repubblicana e di guardare a quel futuro di pace sociale e di democrazia che l’attende.

«Aida, la Costituente, la democrazia» (R. Gaetano, Aida, cit.). Nasce la Repubblica italiana. L’Italia costituzionale, democratica. Gli anni della mediazione, del compromesso storico, dell’unità considerata come unico baluardo della libertà e della crescita del Paese. Una lenta ricostruzione consegnerà benessere e progresso al Paese. Nel periodo del boom economico già cominceranno a palesarsi le prime critiche agli stili di vita consumistici: «Essence benzina e gasolina […] Spendi, spandi, effendi […] non più a gas ma a cherosene, il riscaldamento centralizzato più ti scalda più conviene, niente carbone mai più metano, pace prosperità e lunga vita al sultano […]» (R. Gaetano, Spendi, spandi effendi, in Aida, 1977).

Seguiranno anni molto difficili, di contestazione e di violenza. È il sessantotto italiano. L’ispirazione al maggio francese – «Anche se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio, se la paura di guardare vi ha fatto chinare il mento […] anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti […]» (F. De Andrè, La canzone del maggio, in Storia di un impiegato, trad. G. Brassens, 1973) – è l’accusa di una generazione di giovani alla classe borghese, la contestazione di un intero “sistema”: «[…] e se credete ora che tutto sia come prima […] convinti di allontanare la paura di cambiare: verremo ancora alle vostre porte e grideremo ancora più forte “per quanto voi vi crediate assolti siete lo stesso coinvolti […]» (F. De Andrè, La canzone del maggio, cit.). È l’Italia della rivolta studentesca nelle Università, ma anche l’Italia del conflitto nelle fabbriche. La “storia di un impiegato” diviene il paradigma di una condizione lavorativa difficile, il sintomo di un mai sedato conflitto tra capitale e lavoro: «Hai finito il tuo lavoro, hai tolto trucioli dalla scocca è il tuo lavoro di catena che curva a poco a poco la tua schiena. Neanche un minuto per ogni auto, la catena è assai veloce e il lavoro ti ha condotto a odiare la 128» (R. Gaetano, L’operaio della fiat, in Ingresso libero, 1974). Quella rivendicazione sociale scivolerà nella denuncia ideologica, contaminerà e strumentalizzerà la dialettica politica che diverrà strumento di lotta sociale fino a degenerare nella stagione degli anni del terrorismo come una scheggia impazzita che farà vittime innocenti. È il disegno ingenuo ma criminale di un “bombarolo”, convinto che del potere «[…] la decisione è mia sulla condanna a morte o l’amnistia […]». Il piano di un giovane arrabbiato e stordito – «[…] per strada tante facce non hanno un bel colore, qui chi non terrorizza si ammala di terrore […]» – vittima e carnefice di una sorte sbagliata: «[…] così pensava forte un trentenne disperato […] cercando il luogo idoneo adatto al suo tritolo. […]» (F. De Andrè, Il bombarolo, in Storia di un impiegato, 1973). È l’interprete di una stagione drammatica, finito a rivendicare le proprie ragioni nella prigione di uno Stato concepito come unico nemico, incapace persino «di respirare la stessa aria di un secondino […] per questo ho rinunciato alla mia ora di libertà. […]». È il malessere di un’Italia ingiusta, che sprofonderà con sempre maggiore forza nel turbine incontrollato della violenza. Nel sangue di anni definiti di piombo. Due immagini di un’unica Italia: quella, quasi paradossale, di un potere impermeabile ad ogni forma di dissenso, di ideale, di utopia: «[…] la domenica delle salme […] tutti a seguire il feretro del defunto ideale […] gli addetti alla nostalgia accompagnarono tra i flauti il cadavere di Utopia […]» (F. De Andrè, La domenica delle salme, in Le nuvole, 1990); dall’altra, il dolore di troppe vittime innocenti, di servitori dello Stato, di uomini onesti sacrificati dalla mano ingiusta della violenza ideologica.

È l’Italia degli anni del terrorismo e della strategia della “tensione”. Sarà l’Italia di Aldo Moro. Il volto di un Paese unito nella celebrazione di un uomo giusto, la cui lezione resta ancora valida: «[…] mi ricordo a dodici anni un pomeriggio di sole mi portò a un funerale […] speciale […] e mio padre […] mi diceva “quando avrai un po’ più anni potrai dire io c’ero ai funerali […] di Moro”. […] Questa sera, quasi ventisette anni, sto leggendo il giornale e di quel funerale mi risale l’immagine in mente […] nel dolore del restare impotente […] un ricordo profondo grande come il mondo […]» (L. Jovanotti, Mario, in Lorenzo ‘94, 1994). Sarà l’Italia delle inchieste archiviate per “insufficienza di prove”, dei segreti di Stato, dei troppi silenzi, delle «urla scomposte di politicanti professionisti». L’Italia di «chi si nasconde con protervia dietro a un dito [di] chi non sceglie, non prende parte, non si sbilancia o sceglie a caso per i tiramenti del momento, curando però sempre di riempirsi la pancia» (F. Guccini, Addio, in Stagioni, 2000). Quell’Italia cadrà nuovamente sotto il piombo criminale, ma dello stragismo mafioso: «Povera patria! Schiacciata dagli abusi del potere di gente infame che non sa cos’è il pudore […]» (F. Battiato, Povera Patria, in Una cammello in una grondaia, 1991). La politica stragista ucciderà gli uomini migliori, consegnerà un Paese «[…] devastato dal dolore […]» (F. Battiato, Povera Patria, cit.). Capaci e Via D’amelio diverranno il simbolo di uno Stato sconfitto «Il vento si dileguava in un girotondo di foglie, l’asfalto era una lama di sole, lucido come un presagio nero. […] Poi d’improvviso una nube, come un lampo di finestrino, esplose in un rombo di tuono e furono bucce di mattino […]» (P. Pollina, 19 Luglio 1992, in Camminando, 1997). La canzone tornerà a denunciare il potere colluso e non risparmierà la categoria dei giornalisti: «I messaggeri dell’indignazione arrivarono quasi subito a cavallo delle cineprese per non sporcarsi i pantaloni […]» (P. Pollina, 19 Luglio 1992, cit.). Ma all’indifferenza di quel periodo si contrapporrà la reazione di un popolo: il riscatto di una terra, di un’intera nazione, la rivolta dei “lenzuoli bianchi”. Una mobilitazione civile a cui seguiranno gli esiti dei primi processi, l’impegno congiunto di istituzioni, magistrati, giornalisti e semplici cittadini coraggiosi «coi colori accesi dentro agli occhi scuri, la passione incendia il cemento dei muri e le paure di mille generazioni di chi resiste alle tentazioni di questa libertà […] per chi ha rischiato in prima persona, per chi ha cercato una soluzione e c’era la vita che lo aspettava» (P. Pollina, Centopassi, in Racconti brevi, 2003).

Quella stagione ricadrà inesorabilmente su di un’intera classe politica. All’indomani dell’esperienza di “Manipulite” il sogno di una classe dirigente migliore, di una politica diversa, di una prospettiva da invertire farà parlare di una cd. Seconda Repubblica. Da una parte l’Europa, come orizzonte a cui tendere e dall’altra lo scetticismo di un Paese ancora rassegnato, paralizzato, immobile: «Questo bel Paese pieno di poesia ha tante pretese, ma nel nostro mondo occidentale è la periferia […] è anche troppo chiaro agli occhi della gente che tutto è calcolato e non funziona niente […] sarà che gli italiani per lunga tradizione son troppo appassionati di ogni discussione, persino in Parlamento c’è un’aria incandescente, si scannano su tutto e poi non cambia niente […]» (G. Gaber, Io non mi sento italiano, in Io non mi sento italiano, 2003). Di qui il sogno di una democrazia funzionante: «[…] un’altra caratteristica fondamentale della democrazia è che si basa sul gioco delle maggioranze e delle minoranze […] dipende tutto dai numeri, come il gioco del Lotto, con la differenza che al gioco del Lotto, il popolo qualche volta vince, in democrazia… […] auguri! (Giorgio Gaber, La democrazia, in Gaber 96-97, 1996). A questa amara lettura si aggiunge il desiderio di un maggiore protagonismo dei cittadini nella vita pubblica e la triste constatazione di uno «scrutatore non votante, indifferente alla politica», (Samuele Bersani, Lo scrutatore non votante, in L’Aldiqua, 2006), quale paradigma di una cittadinanza rifiutata, indifferente, rassegnata perché distante dai meccanismi decisionali.

Tuttavia, il desiderio di una prospettiva diversa resterà nelle note più recenti della canzone d’autore italiana. Resterà la denuncia di una politica priva di una vera identità «Che cos’è la destra, che cos’è la sinistra» (G. Gaber, Destra e sinistra, in La mia generazione ha perso, 2001). Resterà l’amarezza di una confessione «se potessi preferirei non rinascere qua» (F. De Gregori, Va’ in Africa Celestino, in Pezzi, 2005). Ma ciò che resta oggi è soprattutto la speranza che diviene impegni per un futuro migliore, da costruire insieme «[…] tra la partenza e il traguardo […] in mezzo c’è tutto il resto. E tutto il resto è giorno dopo giorno. E giorno dopo giorno è silenziosamente costruire» (N. Fabi, Costruire, in Dischi volanti, 006).

Nel centocinquantenario dell’unità d’Italia non possono che essere di speranza le note con le quali intendiamo ricordare la nostra storia e festeggiare l’unità del nostro Paese. Speranza non intese come attesa fatalistica, ma come impegno concreto a migliorare il nostro destino per garantire unità, pace e progresso alla nostra amatissima Italia.

In questi giorni, probabilmente più di ogni altra, vale davvero la pena di rievocare alcune parole di quell’inno straordinario che ci rappresenta nel mondo, che decanta la nostra identità e che, nonostante qualcuno finga di dimenticarlo, si rivolge a ciascuno di noi chiamandoci, non a caso, «fratelli d’Italia».

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