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Che il 2021 sia l’anno della cura

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Lucia Galvagni
ricercatrice della Fondazione Bruno Kessler

Nel messaggio di Francesco per la Giornata mondiale della pace, dedicato alla cura, un passaggio fa riflettere ed invita a guardare all’anno che comincia in una chiave originale: perché non considerare quello entrante come un possibile anno sabbatico, come accadeva nel calendario biblico, nel quale prendersi cura dei più fragili, per offrir loro “una nuova prospettiva di vita” e far sì che non ci sia “alcun bisognoso nel popolo”?

Semplice, intensa, impegnativa questa proposta di Francesco, secondo quello che abbiamo imparato essere il suo stile, il suo metodo, la sua cifra spirituale.

Possiamo pensare all’anno da poco iniziato come ad un anno nel quale provare a mettere in atto comportamenti e attitudini di cura, soprattutto nei confronti di quelle persone che più sono fragili, deboli e vulnerabili, all’interno delle nostre comunità e delle nostre società? Non è un compito dappoco. Ci stiamo rendendo conto che tutti siamo stati fragilizzati da questa situazione e dalle conseguenze che essa sta profilando. Qualcuno è rimasto e rischia di rimanere più esposto ai colpi dell’imprevisto, dell’inatteso, dello straordinario che la pandemia sta provocando: la solitudine di chi muore, di chi è malato, di chi è isolato e di chi vive il dolore di una perdita ci chiedono di individuare modalità possibili di relazione e di amore.

È una sfida autentica, quella che ci viene lanciata e proposta, che chiede di trasformare la comunità in una “casa accogliente, aperta ad ogni situazione umana, disposta a farsi carico dei più fragili”. Lo sguardo agli ultimi, l’attenzione ai poveri della terra costituiscono il significato dell’essere credenti: questo impegno, questa cura riguardano chi più ci è vicino, e tutti coloro che sono e possono diventare il nostro “prossimo”, ma insieme anche il bene comune, l’ambiente e il creato. C’è spazio per ciascuna e per ciascuno e per tutte e tutti, in questo appello. Ognuno può trovare – e può immaginare – un proprio modo per vivere ed esercitare la cura.

Francesco ricorda che pace, giustizia e salvaguardia del creato sono strettamente interconnesse, l’una non si dà senza l’altra. La cura è cura dell’altro e degli altri, dei tanti altri esseri viventi che ci circondano, è cura dell’ambiente e del creato, ma è anche e forse in primo luogo cura di sé. È soltanto a partire dalla capacità di saper ascoltare e curare anche la nostra interiorità che possiamo trovare il modo e i modi di metterci in relazione con l’altro, con un’attitudine di attenzione e di rispetto, per prenderci cura di ciascuno, nei suoi bisogni e nella sua persona, e non dimenticare che della cura ha bisogno ciascuno di noi.

La pandemia, scrive Francesco, ci ha fatto capire che ci troviamo “sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme”: se vogliamo capire cosa può significare – per questo millennio – guardare al mondo e alla globalizzazione, dobbiamo recuperare le nostre capacità di umanità e identificare modi nuovi di stare al mondo, nei quali la prossimità e la cura della prossimità tornino ad essere e a dare significato al nostro andare, al nostro fare, al nostro vivere.

Recita Isaia: “Alla fine dei giorni / il monte del tempio del Signore / sarà elevato sulla cima dei monti / e sarà più alto dei colli; / ad esso affluiranno tutte le genti. / Verranno molti popoli e diranno: / “Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, / perché ci indichi le sue vie / e possiamo camminare per i suoi sentieri”. (…) Forgeranno le loro spade in vomeri, / le loro lance in falci; / un popolo non alzerà più la spada / contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra.” (Is 2, 2-5).

Convertire le nostre spade in vomeri, le nostre lance in falci è forse la più impegnativa forma di cura, quella che ci chiede di abbandonare la violenza, la sopraffazione e la prevaricazione e di costruire percorsi di pace, nel nostro cuore e nei riguardi di chi ci sta più vicino: anche questa, ricorda Francesco, è una forma di guarigione, che richiede “impegno e audacia”. È un appello, questo, che accomuna diverse sensibilità e tradizioni, religiose e non, che assieme possono pensare a costruire percorsi di solidarietà, rispetto, accoglienza e pace. È questa la cura alla quale siamo chiamati in questo nostro nuovo presente.

In ricordo di Agitu Ideo Gudeta, che nell’intensità del suo andare ha costruito percorsi di cura, di rispetto, di pace