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L’illusione degli “abili solutori”

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12 Settembre 2015

di LUCIA BELLASSAI

C’è un problema che noi al Sud viviamo con orgoglio e tristezza insieme.
E’ il fenomeno dei cosiddetti “abili solutori”, su cui mi piacerebbe molto che si aprisse un dibattito nei nostri Osservatori.
Diconsi “abili solutori” negli ambiti di studio pedagogico quei soggetti che, in situazioni di difficoltà, si impegnano a trovare una soluzione alle stesse. E la trovano rapidamente ed efficacemente, facendo la differenza con chi è lento a rintracciare una via di uscita dal problema.
Con la stessa espressione si possono indicare, in un linguaggio veloce e corrente, nel nostro Sud, i ragazzini di strada, quelli che evadono l’obbligo scolastico, ma assecondano l’obbligo di andare a scuola dalla mafia, quelli che non frequentano nessuna realtà programmata per la promozione umana (oratori, palestre, associazioni aventi finalità culturali), quelli che appartengono a famiglie che hanno avuto nel loro seno situazioni di criminalità o di affinità al mondo criminale; sono i più pronti a cavarsela in circostanze non piane, a discapito dei ragazzini che invece hanno alle loro spalle quegli stessi ambienti che abbiamo descritto. Questi ultimi vengono dai primi addirittura beffeggiati. E i primi riescono a guadagnarsi addirittura la simpatia fin quando il loro ambito di azione si ferma ad una forma di monelleria un po’ più spinta. Superato quel limite, il monello è già delinquente in pectore, così la massa lo avverte. Alla massa non interessa nulla che il ragazzino sia privo di adulti di riferimento validi e con la stessa velocità con cui lo indica come enfant prodige, nello stesso modo lo brucia con un giudizio negativo ancor prima che si svolga un regolare processo di condanna, nel caso in cui venga arrestato.
“Abili solutori” è un modo di dire rubato alle scienze umanistiche e usato molto efficacemente per indicare quei ragazzini che entrano a far parte della macchina che produce reddito per le famiglie di mafia e che quindi, come rotelline di un ingranaggio molto grande, vanno preparati, lubrificati e introdotti nel sistema. In modo abile.
L’espressione linguistica appare premiante la rapidità del raggiungimento dei risultati. Con troppo pericolosa superficialità utilizzata.
Nasce spontanea una domanda sul loro conto: “Sono più intelligenti questi ragazzini di altri?
Ha fatto tutto la natura?
Non vale la pena una scolarizzazione sempre più lunga e più elevata, come quella imposta dalla legge italiana ed europea?
E perché ci poniamo il problema, perché porsi il problema rispetto ad una cosa che sembrerebbe scontata secondo criteri di vita antica?”
Per trovare una risposta sensata bisogna inserire nella nostra analisi due altri elementi:
il primo è il risultato raggiunto nella vita da ragazzini che avevano, in età infantile e/o adolescenziale, più o meno quel profilo e il secondo è che cosa questi ultimi non imparano mai e da nessuna parte.
A proposito del primo non può apparire irrilevante il fatto che la maggioranza di simili ragazzini non è più: morti in modo violento, uccisi oppure in galera, lontani dai figli e dagli affetti, vivono una vita che non ci pare possa definirsi soddisfacente. Non conoscono la libertà di muoversi senza timore di essere fatti fuori, non conoscono la possibilità di poter portare a scuola un proprio figlio, andarlo a prendere, non conoscono il piacere di poter esibire i frutti di un lavoro onesto perché i frutti del loro lavoro sono condannati al buio, all’omertà.
A proposito del secondo questi non impareranno mai l’arte di vincere la scommessa di vincere insieme, di scoprire un modo di vivere che è fatto non solo del proprio interesse ma di un interesse più ampio in grado di comprendere anche quello dei singoli.
E allora perché pare vincere in prima battuta la tipologia del ragazzino “abile”?
Perché sottesa a tanta affermazione c’è una cultura generalmente diffusa che promuove la velocità nel raggiungimento di risultati lucrosi, esibiti con maggior vanto se è possibile esaltare la sconfitta di chi sta invece nelle regole.
Una cultura che esalta la spavalderia, il tratto disonesto e delinquente che spesso viene confuso con un fare agile, snello, fulmineo che non si piega al peso dell’etica, della riflessione, della responsabilità.
Tale cultura è quella nella quale siamo immersi tutti, anche coloro i quali sembrano in buona fede, persone perbene.
Insidiosa e perniciosa, avanza e riempie di sé tutte le pieghe del nostro vivere; cancella ciò che è il risultato del promuovere l’efficienza e non l’onestà, distrugge l’autorevolezza ed esalta la regola del clan che chiede di venire garantito nella sua esistenza prima di ogni altra cosa, annichilisce l’arte di promuovere una crescita del Paese in modo responsabile ed enfatizza un modo di vivere assai vicino ad un far cinema di pessima qualità rispetto al quale facciamo coincidere molti lembi della nostra vita.
Ha senso, dunque, non sganciare tale discussione da un contesto più ampio e da una volontà di illuminare la cultura corrente, più disastrosa addirittura del profilo, a volte anche accattivante, dell’abile solutore.