1. Home
  2. Opinioni
  3. Salvare il Natale? È il Natale che salva
0

Salvare il Natale? È il Natale che salva

0
Tiziano Torresi

Quando due anni fa venne distribuita su Netflix la pellicola «Qualcuno salvi il Natale» neppure un Dickens redivivo avrebbe immaginato che il titolo di quella commediola per bambini sarebbe comparso per l’intero mese di novembre 2020 sui mezzi di comunicazione e che «salvare il Natale», non nella fiabesca immaginazione di un film o di un racconto ma nella distopica realtà alla quale ci ha abituato la pandemia, sarebbe stato l’obiettivo di una schiera di politici, virologi, economisti, giornalisti, impegnati ad almanaccare su oculati divieti e paternalistiche deroghe. Ma nella sagra mediatica del Covid la realtà supera l’immaginazione. Per settimane, l’incubo immaginario di dover rinunciare agli sci e ai brindisi, ai pasti luculliani e ai regali, alle tombolate e ai cotillon, ha rischiato di offuscare la tragica evidenza delle centinaia di vittime che il virus continuava – e continua – a mietere. Perché qualcuno doveva pur «salvare il Natale».

La parola «Natale» non ha dunque più nulla a che spartire con il significato che le è proprio. Lo certifica l’esito paradossale dei tentativi di ridarle una presunta autenticità: il ministro ricorda che Gesù può nascere alle 19, il giornalista invoca la disobbedienza per far celebrare la messa a mezzanotte, il maître à penser denuncia immedicabili ferite al sentimento nazionale, il politico difende il valore identitario del presepe solo per accattonare i consensi di un sedicente elettorato cattolico. Il risultato nell’opinione pubblica è grottesco, genera sorrisini e scrollate di spalle, talvolta penose polemiche. Mai riflessione. Perché la società secolarizzata ha cancellato le parole religiose dal suo vocabolario e quella postmoderna utilizza ormai tutto un altro alfabeto. E inevitabilmente le sei sillabe del Natale cristiano le appaiono antiquate, straniere, se non addirittura incomprensibili.

Tutto questo non è una novità. Appare però finalmente con un’inconfutabile evidenza. Perciò, proprio l’imminente Natale, interdetta l’accezione gaia e mondana, potrebbe rappresentare l’occasione propizia e insperata per il recupero di un significato, la messa a nudo di una ipocrisia collettiva rispetto alla quale troppa connivenza c’è stata anche da parte di chi crede.

Ogni dicembre le riviste cattoliche e le omelie di cento vescovi e mille preti intonano il lamento sull’espropriazione pagana del Natale. Ma, anche nelle rare occasioni in cui queste geremiadi provano a spingersi oltre la soglia del moralismo, la medicina che indicano rischia di apparire nulla più che un blando analgesico. Da quanti pulpiti si è predicato che il Natale è la festa del focolare domestico e non del consumismo compulsivo? In quante aule di catechismo si è ricordato che il Natale è la nascita di Gesù e non l’attesa di Babbo Natale? E in quanta buona stampa cattolica si è auspicato che il Natale fosse il momento per ritrovare i sentimenti più veri e non per consumare le smancerie di auguri di circostanza? Tutto vero, tutto giusto.
Ma queste domande rischiano di fermarsi in superficie, di rimanere invischiate sulla glassa dura e dolciastra di riti familiari e sociali, se non si riconoscono come parziali e come relative le stesse, rassicuranti e spesso puerili immagini dentro le quali noi cristiani, per primi, abbiamo ridotto il Natale alla commemorazione, annuale, tutto sommato banale e spesso nazionalpopolare, di un evento. Se non riconosciamo di aver scordato che esso è, anzitutto, appello al futuro. Se non torniamo a intravedere, nella sua disarmante verità, un mistero che si attua e che esige la vita di chi lo celebra – tutta intera la vita – per essere realizzato e per continuare ad avere un senso.

La Parola e la liturgia ci consentono di intuire la grandezza di questo mistero non narrando una storia antica e farcita di buoni sentimenti ma consegnandoci un messaggio che inquieta, che sconvolge, che divide.

Attorno al Bambino non c’è la calma sonnolenta ed estatica di un presepe di pastorelli ammirati, pecorelle che brucano, angioletti e altre vezzose figurine. C’è una tempesta così fragorosa da spezzare in due la storia. Prima e dopo di Lui. La Storia del mondo e le storie degli uomini. Ci sono le vite di Maria e Giuseppe aggrappate a un Ignoto che sembra travolgerle. Ci sono gli inganni e le follie di Erode e le grida delle madri di innocenti trucidati. Ci sono i sassi sporchi del sangue di Stefano, il primo a pagare con la vita l’adesione alla buona notizia fattasi carne. C’è il vortice sorgivo dell’eterna lotta tra la luce e le tenebre che si rifiutano di accoglierla dell’inno al Logos di Giovanni. Non la tenerezza devota, non l’incanto dei buoni sentimenti, non la pia illusione che andrà tutto bene. Questo, piaccia o no, è il lezionario del Natale.

Gioverà ricordarlo a chi predica che, nel clima gelido e insolito della pandemia, il Natale può comunque scaldare il cuore di commozione. Questo cristianesimo di pannicelli tiepidi, questa religione da educandato, questa fede tenuta a bagnomaria non ci bastano e non ci interessano nemmeno più. Perché non riusciranno a ridare alle sei sillabe del Natale un suono comprensibile alle orecchie del mondo. Perché non ha alcun senso salvare un Natale che scalda il cuore ma non infiamma l’animo; un Natale di chi si aggrappa con l’autocompiacimento di un antiquario ai segni, pur legittimi, pur opportuni, ma ne trascura la sostanza; di chi si entusiasma dell’emozione di una notte e non si impegna nella lotta quotidiana; di chi si strugge per una statuina nella mangiatoia o il canto di una nenia bambinesca ma è incapace di riconoscere il mistero di luce che si annida nel buio delle mille e spesso squallide periferie dell’esistenza dove Cristo è ancora e sempre un neonato inerme.

Salvando questo Natale ne avremo solo salvato l’immagine né più né meno dei soloni e degli opinionisti di turno che hanno discettato su come salvarne la maschera. L’anima ci sfuggirà ancora e, con essa, il messaggio severo che proprio il Natale ruvido, scarnificato, quasi feriale che ci apprestiamo a vivere può riconsegnare ai cristiani, attraverso parole di rigorosa coerenza, credibili agli occhi di mondo che non crede, perché divenute sostanza di vita. La greppia di Betlemme ci ripete che non è più il tempo delle suggestioni e delle mezze misure. C’è un prima e un dopo. Le tenebre o la luce. L’impegno o la diserzione. Ci ricorda che Qualcuno è sceso dalle stelle non per lasciarci a mezz’aria con gli occhi sognanti sulla magia del Natale, ma per restare coi piedi per terra e continuare in compagnia degli uomini e delle donne l’impresa impareggiabile di porre la sua tenda quaggiù, al freddo e al gelo dove mancaron e mancan panni e fuoco – e dignità, e lavoro e speranza – a troppi fratelli e sorelle.

Nella società cristiana e contadina di un tempo i regali e la gioia del Natale erano autentici e non il teatro nauseante dello spreco di oggi: c’era la fame. E, grazie alla fame, nel vocabolario di allora Natale era sinonimo di festa. In un mondo affamato di assoluto il Natale cristiano tornerà a essere una parola comprensibile e una festa dello spirito non se ne avremo salvato le apparenze ma se, noi per primi, avremo sperimentato quella fame di assoluto, di trascendenza che arriva a farsi carne, attuandosi nel mistero. E ritroveremo il sapore di un messaggio che sprona, che libera. Che salva, senza nostro merito e senza la ridicola pretesa di doverlo salvare.

tags: