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Non padroni di una verità, ma custodi di una speranza

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di BEPPE ELIA

«Le chiese sono vuote. Ma questo calo drammatico della frequenza esplicita un altro svuotamento persino più serio. È il cristianesimo che ha evacuato per colpa della Chiesa la sua essenza di incarnazione di Dio… Il cristianesimo è ormai insignificante nella coscienza del popolo, non ha peso specifico, Gesù è un fantasma gentile. Se ne è andata la carnalità, le panche e i duri inginocchiatoi, il pane che diventa carne di Cristo». Questa critica, molto severa, è comparsa qualche tempo fa su Libero, a firma di Renato Farina. Potremmo leggerla come l’ennesimo attacco alla guida di questa Chiesa e alla riforma di papa Francesco. Ma mi sembrerebbe un modo superficiale di considerarla, quando invece dovremmo esaminarla con attenzione, perché essa pone delle questioni concrete cui non è così facile rispondere.

Anzitutto l’articolo è sferzante nel ritenere che la Chiesa abbia rinunciato a narrare di un Dio che parla alla vita delle persone e si china sulle loro preoccupazioni. Senza generalizzare, qualche domanda dovremmo davvero porcela sul fatto che la nostra pastorale faccia oggi non poca fatica a misurarsi con le grandi questioni dell’esistenza e che temi come la morte, il dolore, la malattia, l’esperienza della finitezza e della fragilità, il senso dell’esistenza, siano solo sfiorati, perché poco attraenti, quando in realtà gli uomini e le donne di ogni età sono inquietati da essi, pur rimuovendoli spesso dai loro pensieri. Ci siamo accucciati nel tepore delle nostre comunità, di celebrazioni che parlano spesso solo a noi, di relazioni escludenti per stile e linguaggio, in territori dove non si è mai sfidati a dare ragione della nostra fede.

Questo però non significa che la Chiesa tornerà ad essere un interlocutore interessante per il nostro tempo attraverso un balzo all’indietro, nel recupero di antiche prassi o nella semplice riproposizione di una dottrina dimenticata. La secolarizzazione, nelle sue molteplici accezioni, appartiene al vissuto dei nostri giorni e chiede alla Chiesa, a noi credenti, nuove abilità nel capire le esigenze personali e comunitarie, e la ricerca di risposte adeguate; impresa non agevole, perché ci obbliga a uscire dall’autocompiacimento in cui spesso avvolgiamo il nostro stare nella Chiesa e anche il nostro impegno, e a percorrere sentieri inesplorati.

Dobbiamo liberarci dalla prospettiva di tornare ad essere maggioranza, anche se la preoccupazione dei numeri (quanti siete? quanti frequentano la tua parrocchia? quanta gente si confessa e chiede il battesimo? quanti cattolici sono presenti nei partiti politici?) si insinua spesso nei nostri discorsi o fra le domande che ci pongono. Prendere coscienza della nostra situazione minoritaria e accettarla è importante, perché ci libera dalla convinzione di essere forti e perché ci obbliga a cercare l’essenziale, ad andare al cuore del Vangelo, ad essere testimoni di un Dio che si è umiliato facendosi uomo e ponendosi quindi in una relazione fraterna con noi.

Dove ritengo che la provocazione di Farina non colga nel segno è nell’ idea che il cristianesimo sia «ridotto ad un pulviscolo evanescente di valori morali, tenuti insieme dalla misericordia intesa come saponetta che Dio, se c’è, userà alla fine dei tempi per farci tutti candidi come piatti e cristallini come i bicchieri dopo un passaggio in lavastoviglie». Dov’è in realtà questo pulviscolo di valori morali che Farina evoca? Nella difesa dei principi non negoziabili, su cui si sono combattute battaglie in anni non troppo lontani? O in un atteggiamento vagamente buonista che permea la galassia del mondo cattolico? A me non sembra proprio di vederlo. Piuttosto l’accento andrebbe posto nello scollamento fra il Vangelo e una diffusa cultura di adattamento ai valori (ammesso che così li si possa chiamare) oggi prevalenti, in cui faticano a trovare accoglienza e spazio, nella società ma ahimé anche in certi ambiti ecclesiali, i poveri, i miti, i puri di cuore, gli operatori di giustizia, i misericordiosi, i costruttori di pace. Il messaggio di Gesù non è neutrale, non è accomodante, non si modella a piacimento sui nostri orientamenti individuali o comunitari, è esigente. Siamo deboli e irrilevanti anche perché non crediamo realmente nella forza liberatrice di una Parola che eccede ogni nostra prudenza, e quindi non la rendiamo viva.

Ma questa analisi critica deve anche accompagnarsi al pensiero che è presente nell’esperienza di molti credenti (o pochi, non so dire), insieme alle debolezze e alle incertezze del tempo che viviamo, la consapevolezza che la fede cristiana non è mai riducibile ad un’etica, per quanto alta e rigorosa; si esprime nella sequela di Cristo, lungo un percorso impervio, in cui si mescolano la gioia del credere, la fatica della coerenza, l’inquietudine della inadeguatezza personale e comunitaria. Essi non sanno forse dirlo con parole idonee e con gesti attraenti, e anche dentro una società non più cristiana, se non nelle forme di alcune tradizioni, rappresentano un nucleo vitale di persone che non si sentono padroni di una verità da sbandierare, ma custodi di una speranza di salvezza, di una Parola rispetto a cui si è permanentemente inadeguati.

I valori morali in cui credono si incarnano in scelte personali e di impegno comunitario, nella famiglia, nel lavoro, nel volontariato, nella politica, avendo comunque la coscienza di dover capire sempre meglio (con gli strumenti culturali di cui dispongono, perché vi sono fra loro persone colte e persone molto semplici) i mutamenti che avvengono nel mondo. Conoscono i propri limiti e i limiti del loro agire, e sanno che la misericordia di Dio non è la saponetta che li rende lindi, ma è, come ci ricorda papa Francesco, «azione concreta dell’amore che, perdonando, trasforma e cambia la vita». Per molti, essi sono dei perdenti, gente da guardare con diffidenza perché non hanno l’ambizione di emergere e di contare, ma caso mai di servire: un vero scandalo per i tempi che viviamo. Forse non sono più di moda, anche per loro, le panche e i duri inginocchiatoi, ma essi sono ancora un segno della presenza di Dio dentro la storia delle nostre città.

(editoriale pubblicato su Coscienza 4-2018)