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Caso Cappato: una lettura della sentenza della Consulta

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di LUIGI D’ANDREA

Con la recente sentenza n. 242/2019 la Corte costituzionale si è definitivamente pronunziata sul “caso Cappato”, una delle vicende (come i casi Englaro e Welby) in rapporto alle quali si sono venute dipanando nel dibattito pubblico le complesse problematiche, non solo giuridiche, ma anche etiche, che si coagulano intorno al “fine-vita”. Si tratta di una decisione del giudice delle leggi che si lega strettamente (ed esplicitamente) all’ordinanza n. 207/2018, con la quale la stessa Corte, sempre in relazione al “caso Cappato”, aveva già rilevato la sussistenza di seri dubbi di costituzionalità in ordine all’art. 580 c.p. (“istigazione o aiuto al suicidio”), ma si era astenuta dal pronunziarsi formalmente sul merito della questione di legittimità costituzionale promossa dalla Corte di assise di Milano, e, adottando una tecnica decisoria del tutto innovativa (e che molto ha fatto discutere la dottrina), ha rinviato di un anno la trattazione della causa, così da consentire al legislatore democraticamente eletto l’adozione di un’adeguata soluzione normativa che, sul terreno della normazione generale ed astratta, individuasse un ragionevole punto di equilibrio tra le molteplici istanze costituzionalmente rilevanti coinvolte da simili vicende.

Nella perdurante inerzia del Parlamento, che si è limitato ad avviare l’esame in commissione di molteplici proposte di legge, senza tuttavia giungere neppure all’adozione di un testo unificato, la Corte costituzionale, con la sent. n. 242/2019, ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione – , agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatasi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.

Già dalla semplice lettura del dispositivo delle sentenza costituzionale emerge con chiarezza come il giudice delle leggi non operi (né, in alcun modo, prefiguri) un’indiscriminata apertura nei confronti di pratiche di tipo eutanasico. Sono infatti fissati con nettezza i limiti all’interno dei quali si configura “una circoscritta area di non conformità costituzionale della fattispecie criminosa” (secondo le parole della stessa Corte costituzionale, nel n. 2.3 del cons. in dir.), espressamente negandosi che dall’art. 2 Cost. possa discendere il diritto dell’individuo “di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire”, ed anche che si possa “desumere la generale inoffensività dell’aiuto al suicidio da un generico diritto all’autodeterminazione individuale, riferibile anche al bene della vita”. Viene piuttosto con forza riaffermato il dovere dello Stato di proteggere la vita, specialmente delle persone più deboli e vulnerabili. Ancora, quanto al tema dell’obiezione di coscienza del personale sanitario, si precisa (al n. 6 del cons. in dir.) che dalla sentenza non si determina alcun obbligo di procedere all’aiuto al suicidio in capo ai medici, restando affidato alla loro coscienza se prestarsi o meno ad esaudire le richieste dei malati. La sorvegliata “depenalizzazione” della condotta di aiuto materiale al suicidio nasce – per così dire – sul tronco dell’istituto del consenso informato richiesto per la somministrazione di ogni trattamento, nonché del conseguente diritto a rifiutare ed in ogni momento interrompere tale trattamento (anche quando questo concretizzi una forma di sostegno vitale), sancito dalla legge n. 219/2017: in tali istituti (nei quali il diritto alla salute ed il diritto di libera autodeterminazione si intrecciano quasi simbioticamente…) la Corte ravvisa una significativa manifestazione del principio personalista, che del sistema costituzionale si pone come l’autentico cardine. Dunque, la decisione assunta dalla Corte costituzionale si configura come un delicato bilanciamento tra diversi interessi di sicuro rilievo costituzionale, per la cui tutela fissa alcune significative garanzie procedurali (ricavati dalla legislazione vigente) e resta giustamente aperta alle peculiari esigenze recate dall’evoluzione della scienza medica e dalle specifiche caratteristiche di ogni individuale, dolorosa, vicenda concreta.

Naturalmente, la sent. cost. n. 242/2019 non chiude in alcun modo il vivace dibattito da tempo aperto nel nostro Paese su problematiche la cui marcata complessità (e vertiginosa delicatezza) risultano di tutta evidenza. Né esime i diversi soggetti a vario titolo coinvolti (classe politica, scienziati, ricercatori, personale impegnato nei centri di cura, pazienti… ma in definitiva tutti i cittadini…) dall’assolvimento delle rispettive responsabilità nella gestione delle dolorose fragilità manifestate dai pazienti terminali. Tra gli altri, il Parlamento è certamente nella condizione di (anzi, è sollecitato dalla stessa pronunzia del giudice costituzionale ad) approvare una legge in grado di farsi carico dell’esigenza di offrire ponderate e congrue tutele a tutti gli interessi in gioco; e la comunità dei credenti resta chiamata a testimoniare, al di là delle complesse questioni giuridiche fin qui evocate, l’amore misericordioso di Cristo Signore nei confronti dei soggetti più deboli, e ad alimentare e sostenere la diffusa capacità di vivere la sofferenza ed il dolore nella luminosa e salvifica prospettiva della resurrezione.

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