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La laicità è un rischio che dobbiamo correre

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Nell’incontro con il Meic papa Francesco ha posto l’accento sulla laicità. Che porta con sé il rischio di non saper leggere con adeguata sapienza i segni dei tempi, il rischio di correre troppo, il rischio di sbagliare: ma è la nostra responsabilità nella Chiesa alla quale non si può abdicare

Beppe Elia
presidente nazionale del Meic

L’incontro della Presidenza del Meic con papa Francesco è stato certamente un momento di intensa commozione, dal quale abbiamo tratto il convincimento che vi sia una profonda sintonia umana e spirituale fra lui e il nostro movimento. Di questo incontro Marinella Sciuto ha scritto un resoconto in altra parte di questo numero di Coscienza. A me preme rimarcare alcuni aspetti che, a distanza di qualche mese, rimangono impressi come segni indelebili per il nostro cammino di credenti.

Francesco ha iniziato il suo intervento mettendo l’accento su una parola che io non avevo pronunciato nel mio saluto introduttivo: discernimento. Mi sono chiesto perché abbia voluto parlare anzitutto di questo, e mi sono convinto che egli senta grande preoccupazione per una comunità cristiana che, soprattutto in questo periodo di pandemia, abbia bisogno, in ampie sue componenti, di ritrovare certezze che la liberino dallo smarrimento del tempo che viviamo, come pure forme ed espressioni della fede rassicuranti. Egli ha la precisa convinzione che la storia domanda ben altro che il consolidamento di una tradizione immobile; che ci sono avvenimenti che incidono profondamente nel nostro cammino personale, spirituale e sociale; che occorre un di più di intelligenza per cogliere ciò che sta avvenendo e per dare anche alla testimonianza cristiana un sapore nuovo. Papa Francesco sa che ci sono molte resistenze a questo cambiamento, perché molti temono di entrare in un mondo nel quale il Vangelo sia esposto ai venti e alle tempeste di un relativismo etico e religioso, ma proprio per questo ci ha voluto dire che occorre un vero discernimento, che è fedeltà al cuore del Vangelo, perché legge la realtà con gli occhi del suo messaggio liberante. Non è chiudendo la mente ai tempi nuovi, per timore che inquinino la purezza della nostra fede, che salviamo la fede e salviamo noi stessi, ma al contrario aprendola alla comprensione del mondo, al dialogo con tutti, in un grande impegno comunitario che rinnovi dal di dentro le nostre persone e le strutture che abitiamo.

Ci ha parlato di discernimento allora perché in un movimento di impegno culturale questa iniziativa di apertura dovrebbe essere il cuore del suo stesso essere nella Chiesa e dentro gli spazi sociali, politici, economici. Come dire: dovete essere voi, che avete nel vostro statuto, e anche nel vostro nome, questa missione, a farvi carico (con altri che pure lo condividono) di questo progetto. Non ci ha chiesto quanti siamo, ma ci ha semplicemente indicato una strada, perché sa che spesso anche da piccole realtà possono venire importanti iniziative di rinnovamento.

E qui egli ha posto l’accento sulla parola laicità. Niente di nuovo, verrebbe da dire, perché in più occasioni papa Francesco ha rimarcato la necessità di un rinnovato impegno laicale. Ma averne parlato, in modo anche molto franco, dopo il suo invito al discernimento, fa capire il compito che egli assegna a noi laici nell’azione di riforma della Chiesa e di annuncio missionario. A me infatti è parso, anche se potrei sbagliare nella mia interpretazione, che egli chieda al laicato cristiano maturo e responsabile la capacità di immergersi dentro la storia con più coraggio, senso critico, autonomia di pensiero, creatività e di trasfondere questo spirito dentro la Chiesa per renderla più fedele al suo mandato originario.

La laicità esige uno sguardo nuovo e la capacità di stare dentro la storia in modo meno ingessato, per superare quella rigidità che Francesco considera l’altro grande male della Chiesa

Il fatto che egli abbia duramente puntualizzato che dobbiamo superare due grandi mali che corrodono la vita delle nostre comunità: il clericalismo e la rigidità, credo debba essere inteso, non solo come invito a difenderci da alcuni rischi presenti oggi nella vita della Chiesa, ma, in chiave positiva, come orientamento a pensare e ad agire sulla base della responsabilità che ci viene dal comune battesimo, e del triplice compito profetico, sacerdotale e regale che il Concilio Ecumenico Vaticano II ci ha consegnato. In altre parole: il Concilio ha indicato una strada che abbiamo percorso solo in piccola parte, ma che apre a scenari ancora da indagare e a modelli ancora da studiare e sperimentare.

La laicità è rischio: rischio di non saper leggere con adeguata sapienza i segni dei tempi, rischio di correre troppo, rischio di sbagliare; ma sarebbe abdicare alla nostra responsabilità quella di affidare, per timore di compiere errori, le nostre scelte sempre alle indicazioni di un vescovo o di un presbitero, quasi che essi abbiamo strumenti e carismi capaci di orientare ogni nostra scelta. Il clericalismo nasce là dove il laicato rinuncia ad esercitare il suo ruolo. Sovente diciamo che in una comunità cristiana la vitalità dei laici sia favorita e rafforzata dalla intelligenza e dall’apertura dei pastori. È certamente vero, ma trascuriamo di considerare che vale anche l’inverso: e cioè che un laicato maturo e culturalmente robusto aiuta a i pastori a crescere umanamente e spiritualmente.

Questo esige uno sguardo nuovo e la capacità di stare dentro la storia in modo meno ingessato, per superare quella rigidità che Francesco considera l’altro grande male della Chiesa. Narriamo spesso, e ne siamo convinti, che il Vangelo non è una gabbia di prescrizioni, di regole, ma buona notizia, è speranza per ogni uomo e donna, possibilità di respirare quando sentiamo l’affanno della vita. In mezzo a mille difficoltà Francesco continua a sospingere la sua Chiesa a comunicare questo Vangelo di misericordia e di apertura al mondo, ma se noi laici cristiani ci limitiamo a lodare il papa, senza intraprendere un vero cammino di riforma in tale direzione, egli rischia di rimanere davvero solo.