1. Home
  2. Opinioni
  3. #DISTANTIMAUNITI Per una fede adulta dopo la pandemia
0

#DISTANTIMAUNITI Per una fede adulta dopo la pandemia

0

16 Giugno 2020

di DON MARCELLO MILANI
assistente del Meic di Padova e del Triveneto

(questo testo è disponibile anche in pdf)

Papa Francesco ci ricorda sempre che il centro della fede è il Vangelo a cui aderire con tutta la vita: vita evangelica, la gioia del Vangelo.

Inoltre, con garbo ed essenzialità, ci ricordava:

«In questo tempo nel quale si comincia ad avere disposizioni per uscire dalla quarantena, preghiamo il Signore perché dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e della obbedienza alle disposizioni, perché la pandemia non torni».

E il 2 maggio:

«Nei momenti di crisi non cambiare cavallo in mezzo al fiume. Questo vale per tante situazioni. Per il credente significa non svendere la fede».

Bartolomeo I, patriarca di Costantinopoli-Istambul, che la sua fede vive in mezzo ai musulmani, ha un pensiero interessante per questo tempo.

«Forse alcuni di voi hanno avuto la sensazione che con queste misure drastiche si sottovaluti e si offenda la fede. Ciò che è in pericolo non è la fede ma i fedeli, non è Cristo ma noi cristiani, non è il Dio-Uomo ma siamo noi uomini».

La pandemia ci interroga sul senso della nostra fedesull’essere chiesa-comunità e il modo di testimoniarla, su quale pastorale cioè la comunicazione della fede: fede integrale e significativa o di minoranza insignificante? Qualche prete vede manifesta tutta la nostra fragilità: la gente ci imita magari sulla carità, ma non ci segue nella fede. È vero? A verifica e in prospettiva, ecco alcune riflessioni colte in questo tempo.

1. Domande sulla fede

Nella pandemia la fede sembra essere stata messa in sordina o indicata solo come consolatoria, fuori della razionalità. Si ritiene che chi combatte il virus è la scienza! E la fede? La chiesa per molti si è smarrita, sottomessa ad altre autorità; forse lo è anche qualche vescovo. Un prete ha affermato che il discorso di Conte sulle chiese che restano chiuse ha messo a nudo la nostra insignificanza. Un “grazie”, detto non si sa perché, ma che espressamente, anche se con eleganza, afferma:

«… siamo una istituzione piena di servizi, ma irrilevante e in assoluta minoranza circa le convinzioni di fondo. Per il nostro specifico non meritiamo nemmeno lo stesso investimento di pensiero che per il jogging … ci ha solo detto ciò che tutti sapevamo e che non si poteva dire: siamo diventati una piccola minoranza. Solo che ci trasciniamo dietro mille residui storici. Vogliamo iniziare a giocarci bene il nostro ruolo di minoranza?

Convergo non sul lamento, ma sulla minoranza e sul bisogno di un supplemento di riflessione e programmazione. Prima che sul fare, su ciò che siamo, su tutta la realtà ecclesiale e sulle nostre scelte.

In passato si diceva: Giovanni Bosco nella peste del suo tempo ha inviato i suoi ragazzi a prestare aiuto: nessuno si ammalò (ma a Roma una comunità salesiana ha avuto un focolaio di Covi-19: meno fede?); santa Caterina da Siena, infermiera, bevve il pus di una malata senza infettarsi (ma poco prima una malattia le aveva deturpato il volto, invecchiato precocemente; e a 33 anni era già con il Signore per un ictus); san Luigi Gonzaga morì prestando aiuto agli appestati (non fu risparmiato nel suo gesto di carità, ne fu vittima come molti operatori oggi; tra questi addirittura ci sono stati alcuni suicidi, per l’angoscia di fronte ai tanti morti).

Non è la buona o cattiva riuscita a caratterizzare la bontà dei gesti o della fede, ma la fede che assume una autentica relazione con Dio e Cristo e va in soccorso al più fragile, fino a rischiare la vita.

E non è la messa che salva la fede, ma è la fede che salva, perché riconosce la messa e, celebrandola, si lascia educare dall’azione-amore di Cristo e dalla sua Parola. Certo l’Eucarestia è un dono grandissimo e il “digiuno” eucaristico, per un credente è una sofferenza. Tuttavia, si obietta: diversi che lamentano e quasi gridano allo scandalo per la mancanza di messe non hanno mai ricordato che Cristo non è solo nell’Eucaristia ma anche nella sua Parola e nei poveri, affamati, stranieri, ammalati, carcerati e cosi via (Mt 25).

Occorre dunque ritornare alle domande essenziali, per ripartire in modo nuovo. Ripensare una fede adulta e riflessiva, che si nutre alle fonti e si affida alle mani di Dio come fece Gesù. Ne riprendo alcune.

2. La domanda su Dio

Iniziamo dalla domanda fondamentale della fede, quella su Dio. Formulo tre riflessioni e domande, partendo da un biblista fiorentino, Luca Mazzinghi (cf. le citazioni).

2.1. Molti in questi giorni si chiedono: «dov’è Dio?»: presenza o assenza? Domanda ripetuta ad Auschwitz, ma visibile in tante pagine della Bibbia, soprattutto tra gli ebrei nella prova del “deserto”: «Il Signore è in mezzo a noi si o no?» (Es 17,7).

D’altra parte, anche Gesù sulla croce, nel silenzio e nell’esperienza di solitudine, ha gridato: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46; Mc 15,34; cf. Sal 22,2). È la domanda del credente, che cerca la vicinanza di Dio nel momento dell’isolamento. Ci sono momenti di fede solitaria e difficile.

Poi, perché uno creda o non creda più dinanzi alla prova, resta il mistero di Dio.

Ma si pone anche la domanda sul Dio ridotto a idolo fabbricato nel deserto e proclamato: «Ecco il tuo Dio» (Es 32,8). In realtà, è un Dio manipolato e ridotto a “tappabuchi”, che dovrebbe rispondere alle nostre domande e bisogni, non il Dio della relazione a cui noi dobbiamo rispondere con la nostra vita e responsabilità; è il Dio giudice implacabile, il Dio della paura, non il Dio da abbracciare con fiducia e libertà, come ha fatto Papa Francesco con il Crocifisso il venerdì santo in un gesto non rituale, ma affettuoso e spontaneo.

Nel giardino, dopo il peccato, l’uomo risponde: «ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (Gen 3,10). L’essere umano si scopre improvvisamente fragile, debole, impotente. Sperimenta che nel momento in cui ha preteso di porsi lui stesso come “dio” (“sarete come Dio”; cf. Gen 3,5) tutto crolla: crolla il rapporto con l’altro (ecco le foglie di fico per nascondersi), si rompe il rapporto con la terra (“spine e cardi produrrà per te”), si apre il cerchio della violenza, e il fratello uccide il fratello (Gen 4); la terra si corrompe e viene sommersa dal diluvio (Gen 6-9).

“Ho avuto paura”: l’essere umano inizia a concepire Dio come un giudice terribile, pronto a punire la minima trasgressione; non lo coglie più come quella presenza amica che passeggia nel giardino alla brezza del giorno (Gen 3,8). “Dove sei?”. Che ne è, uomo, di te? Che ne è del tuo delirio di onnipotenza e della tua illusione di poter realizzare tutto con le tue sole forze?

Il nostro delirio di onnipotenza (“sarete come Dio” – senza Dio, Gen 3,1-5) è in crisi e allora occorre chiederci chi sia Dio e chi siamo noi, prendendo le giuste misure, facendo i conti con il nostro limite e la morte tanto censurata. Anche là è Dio.

2.2. È dunque il caso di rovesciare la domanda e chiederci più che “dov’è Dio?”, “chi è Dio?”. In quale Dio crediamo e quale Dio annunciamo? Il Dio della paura o il Dio liberante, che scommette sulla libertà umana (l’alleanza avviene quando Israele non è più schiavo, ma libero), il Dio che risolve i problemi o che ci accompagna nell’affrontarli? Il pericolo di manipolare Dio e Cristo (creare il vitello d’oro!) è sempre alle porte.

Se non siamo capaci di porci una corretta domanda sull’identità di Dio rischiamo seriamente che una volta usciti da questa pandemia, il mondo occidentale rimanga ancor più convinto che la vera salvezza viene solo dalla scienza e che la religione può tutt’al più avere un ruolo subalterno, magari consolatorio, ai margini della razionalità.

Nel Nuovo Testamento, il Dio di Gesù è il Dio dal cui amore nulla potrà separarci (Rm 8), il Dio a cui lui si affida nel momento più forte della prova chiamandolo “Abbà/Padre”, termine affettuoso e di fiducia. È il Padre che si prende cura di ogni creatura, del passero e del giglio del campo. Negarlo significherebbe prendere le distanze da tutto ciò che Gesù ha detto e ha fatto. È il Dio che Gesù incarna nella sua umanità rivelandone il volto pieno di compassione, che condivide ogni esperienza umana, perché ogni circostanza sia vissuta a immagine di lui, compresa la sofferenza e la morte.

2.3. Allora abbiamo bisogno non di più religione (= pratiche, devozioni, cose sicure e rassicuranti, riti pensati come talismani e assicurazioni sulla vita), ma di più fede. Per le chiese cristiane è l’ora di puntare sulla maturità della fede, che riconosce il Dio della vita come centro della nostra esistenza e il Dio da cercare sempre.

«Quella che oggi stiamo vivendo è certamente un’ora di crisi; “crisi” nel senso profondo della parola, dal greco “giudizio”: un’occasione cioè per operare un giudizio sulla realtà e sulla nostra vita e per compiere delle scelte. È anche un’ora “apocalittica”, ma nel senso biblico del termine, non cioè “distruzione”, ma “rivelazione”: in quest’ora della storia il Signore ci rivela per quel che veramente siamo, per quello in cui realmente crediamo. Non ritengo di poter affermare con certezza che questa “crisi” e questa “apocalisse” si trasformerà necessariamente in un’opportunità che ci renderà più solidali gli uni verso gli altri; non so se davvero nascerà quella compassione universale che ci renderebbe più umani, perché la sofferenza, il dolore, la morte non accrescono automaticamente l’amore e la bontà; l’egoismo umano ci porta infatti troppe volte a scegliere l’opposto.

Se poi le chiese cristiane non saranno capaci di interrogarsi su quale volto di Dio esse stanno annunziando, il rischio è quello di uscire da questa crisi scoprendo la nostra insignificanza per il mondo contemporaneo. La verità è che nel momento delle grandi prove non ci vuole più religione, ma più fede. Dove la fede consiste nel non voler dire mai più, di fronte alle sciagure, “dov’è Dio?” o “Dio dove era?”, ma nel saperlo riconoscere al centro dell’esistenza, come il Dio della vita».

3. Riflettere sulla sofferenza, la morte e la vita

Anche sofferenza, malattia e morte sono parte della vita. Che siamo gli unici in grado di portare qualche parola diversa sulla morte è ancora riconosciuto come un aspetto fondamentale della fede e della chiesa. Ma in che modo? Non come censori della morte e della sua fatica, della sua paura, ma come annunciatori di speranza, con l’affidamento al Padre (anche se un credente accusava la nuova liturgia di accentuare troppo la speranza e meno il dies irae, il tormento e la fatica di fronte alla morte; probabilmente non aveva presente tutta la liturgia anche antica dei defunti).

In questo periodo, però, anche questo è stato annunziato con fatica, per non intralciare altri lavori (cf. la solitudine nella morte, morte meno umana). Si è parlato degli “operatori sanitari” in genere, ma pochi ricordano o contemplano tra i servizi sanitari le “cappellanie” degli ospedali, che hanno offerto servizi straordinari e silenziosi, senza disturbare altri operatori ma in sintonia con loro. Cosa che hanno fatto anche alcuni medici e infermieri (ecco la testimonianza di un medico e diacono a Careggi).

Il cappellano interviene quando viene chiamato, per portare la comunione o per l’estrema unzione: anche in questi casi, con una serie di accorgimenti non semplici da attuare. «Bisogna capire che tutelare se stessi è necessario per tutelare anche gli altri: atti di eroismo, come visitare persone infette senza le dovute protezioni, diventerebbero pericolosi non solo per chi li compie, ma per tutte le persone con cui si entra in contatto».

È importante la presenza nelle cappelle ospedaliere, come segno: «Far vedere che lì c’è una luce accesa, una persona che prega». Poi ci sono le forme di apostolato a distanza: i volontari che frequentano la cappella del pronto soccorso, ad esempio, si sono riuniti via internet per recitare insieme il Rosario; altri dicono insieme l’Angelus ogni giorno alle 12. Allo stesso modo, continuano i contatti con i malati. «Una persona che dovevo vedere come accompagnamento spirituale ho potuto incontrarla con una videochiamata su WhatsApp. È stata una lunga chiacchierata, quasi tre ore, perché per la sua patologia di quando in quando si addormentava e io aspettavo che riprendesse. Ma è stato possibile e soddisfacente».

Bisogna avere il coraggio di prendere coscienza del limite, di togliere le impalcature, come anche di denunciare scelte ciniche. Soprattutto è importante trovare il modo di umanizzare la sofferenza e la morte e comunicare segni di speranza.

Ripropongo qualche pensiero sulla sofferenza a partire da Dietrich Bonhoeffer, impiccato a Flossenbürg, martire della resistenza al nazismo e a Hitler in particolare (da Resistenza e resaLettere e scritti dal carcere, Ed Paoline, Cinisello Balsamo [Milano] 1988). Egli parte dalla giusta considerazione che la sofferenza in sé non è positiva, ma un male da superare. Dio però può farne uno strumento di salvezza.

«Il dolore è rimasto estraneo alla maggior parte della nostra vita. Uno degli inconsapevoli principi o ideali della nostra vita era di raggiungere il più possibile l’assenza di dolore. Un modo di sentire differente, un modo di vivere intensamente il proprio e l’altrui dolore costituisce la forza e, insieme, la debolezza della nostra forma di vita».

Riconosce la dignità di ogni persona sofferente:

«Dobbiamo imparare a valutare gli uomini più per quello che soffrono che per quello che fanno o non fanno», che ricorda una frase di Papa Francesco (nel discorso del 27/03/2020), di una intuizione straordinaria: «Davanti alla sofferenza si misura il vero sviluppo dei nostri popoli».

Nella sofferenza, nell’assumerla o meno, si manifestano i segni di umanità. Come la fede può umanizzare la sofferenza e il modo di morire? Bonhoeffer tenta di riassumere il senso della sofferenza vissuta da Cristo e dai credenti.

«È infinitamente più facile soffrire ubbidendo ad un ordine dato da un uomo, che nella libertà dell’azione responsabile personale. È infinitamente più facile soffrire comunitariamente, che in solitudine. È infinitamente più facile soffrire pubblicamente e ricevendone onore, che appartati e nella vergogna. È infinitamente più facile soffrire nel corpo che nello spirito.

Cristo ha sofferto nella libertà, nella solitudine, appartato e nella vergogna, nel corpo e nello spirito, e da allora molti cristiani con lui».

«I cristiani stanno vicini a Dio nella sua sofferenza, questo li distingue dai pagani… Questo è il rovesciamento di tutto ciò che l’uomo religioso si aspetta da Dio. L’uomo è chiamato a condividere la sofferenza di Dio in rapporto al mondo senza Dio… Questa è la metánoia: non pensare anzitutto alle proprie tribolazioni, ai propri problemi, ai propri peccati, alle proprie angosce, ma lasciarsi trascinare con Gesù Cristo sulla sua strada nell’evento messianico».

«Certamente non tutto quello che accade è semplicemente ‘volontà di Dio’. Ma alla fine comunque nulla accade ‘senza che Dio lo voglia’ (Mt 10,29); attraverso ogni evento, cioè, quale che sia eventualmente il suo carattere non-divino, passa una strada che porta a Dio».

L’affermazione di Bonhoeffer: «attraverso ogni evento, quale che sia eventualmente il suo carattere non-divino, passa una strada che porta a Dio», ci induce a chiederci: qual è la strada da scoprire oggi? verso dove e come andare? Dopo la domanda sulla fede, mi pare che si imponga la questione della messa e della chiesa.

4. La domanda sulla messa

È essenziale per i credenti celebrare l’Eucaristia; e le messe viste in TV non sono da equiparare alla celebrazione eucaristica, ma un aiuto in tempo di crisi (su questo occorre riflettere, per non scambiare le cose, ma per operare scelte e avvertenze). Il problema è la mentalità della nostra gente, degli stessi “fedeli” frequentanti: quale cultura li anima? E la celebrazione di emergenza non rischia di essere ridotta solo al prete celebrante, al prete solo senza comunità?

4.1 Certo abbiamo puntato su una pastorale dei sacramenti (e il viverli e celebrarli resta la via centrale e normale) e dell’iniziazione cristiana. Ma in certi (o molti) casi prevale il “dire la messa” (messificio, prendere messa…, in clima precettistico e consumistico contro lo spirito e la sensibilità del Vaticano II; così vivono anche molti cristiani che vanno a “santuari”, per sentire la fede in libertà e fuori comunità: è più attraente = il “supermercato” della fede?). E adesso siamo in totale crisi.

4.2. Con le chiese chiuse la “libertà di culto” viene meno? Non va confusa con il diritto alla fede personale e alla sua manifestazione o testimonianza. Il diritto alla “libertà di culto”, in quanto forma di manifestazione della fede, è seguente e si deve confrontare con altri diritti e valori, come quello della vita e della sua protezione.

Un vescovo argentino, Eduardo Garcia, in Osservatore Romano, interrogato: «dopo l’allentamento, in alcuni paesi, delle misure della quarantena, si è acceso un dibattito sulla possibile riapertura delle chiese per celebrare cerimonie con i fedeli. Crede che ci sia il rischio che la situazione attuale possa limitare libertà fondamentali dei cattolici e della Chiesa stessa?». Risponde:

«Mi ha colpito molto in questi giorni, che sia circolato un video rivolto a noi vescovi con la frase “ridateci la Messa”. Da un giorno all’altro, sono saltate fuori correnti politiche e religiose che chiedono con insistenza e con fragore di allentare le misure di confinamento e che vogliono inserirci in un quadro di conflitto, come se fossimo una Chiesa perseguitata, situazione che si è verificata e continua a verificarsi in altri sistemi politici in varie parti del mondo. Ma non nel nostro paese.

Credo che ci siano tanti profeti di sventure, … tante persone che confondono la conversione pastorale e missionaria con il relativismo morale. È molto semplice: prevenire il contagio è una responsabilità civile e cristiana. E quello che noi vescovi stiamo dicendo è proprio di adempiere alla Legge di Dio, che nel suo quinto comandamento ci ordina di custodire, promuovere e difendere la vita, di preservarla, la nostra e quella altrui: questo stiamo facendo».

Del resto, la Gaudium et Spes. 43, afferma:

«Non pensino (i laici) che i loro pastori siano sempre esperti al punto che, ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta o che proprio a questa li chiami la loro missione; assumano invece essi piuttosto la propria responsabilità…».

Aggiungo il pensiero di Papa Francesco nell’enciclica Laudato si‘:

«Su molte questioni concrete la Chiesa non ha motivo di proporre una parola definitiva e capisce che deve ascoltare e promuovere il dibattito onesto fra gli scienziati, rispettando le diversità di opinione. Basta però guardare la realtà con sincerità per vedere che c’è un grande deterioramento della nostra casa comune. La speranza ci invita a riconoscere che c’è sempre una via di uscita, che possiamo sempre cambiare rotta, che possiamo sempre fare qualcosa per risolvere i problemi» (n.61).

Commenta una coppia di laici (Luisa e Paolo Benciolini).

«Ci sembra che assumersi la propria responsabilità (non solo come laici ma tutti, come popolo di Dio) in questa esperienza di pandemia significhi che i criteri che devono presiedere al ripristino delle funzioni religiose debbano essere ricercati in una valutazione tipicamente propria delle scienze umane (e non nel rivendicare la “libertà di culto” e nel giudicare tali criteri “arbitrari”!). Gesù ci ha manifestato una attenzione appassionata alla salute degli uomini malati e al valore del corpo umano. Abbiamo condiviso, nelle nostre parrocchie e anche nelle nostre diocesi, la scelta dei nostri pastori di ottemperare a norme suggerite per il bene di tutti, convinti che evitare l’espandersi dell’epidemia attenga al senso profondo dell’incarnazione. In queste settimane non ci siamo sentiti orfani perché privati del segno sacramentale ma invitati a sostare pensosamente in questo “deserto” e a viverlo come occasione offerta alla nostra spiritualità per rafforzare la nostra fede in Dio creatore, la nostra speranza in Gesù salvatore e la carità che ci è suggerita dallo Spirito per far dono all’umanità della privazione delle nostre libertà».

4.3. Tento alcune piste per un orientamento in questa situazione.

  • Occorre non dimenticare le tante forme di presenza del Signore oltre i sacramenti e l’Eucaristia, dalla Parola ai poveri (carità). Inoltre, la costrizione a rinunciare a delle pratiche consolidate, è occasione per inventarne di nuove, anche sollecitando tanti gruppi a creare forme di comunicazioni meno scontate e, forse, più profonde (anche con i media).
  • Una volta aperta la messa, non potranno venire meno tutte le forme di preghiera e catechesi, soprattutto quelle legate ai ministeri laicali (o religiosi) e delle famiglie (ad es. riscoprendo la preghiera e la riflessione nella “chiesa domestica”), così come le forme di carità creativa sperimentate in questo tempo.
  • Bisognerà che la messa diventi celebrazione di comunità visibile, di «assemblea celebrante», prima che un precetto da soddisfare o il luogo dello show del prete. Dovrà essere il luogo che manifesta una ministerialità allargata in cui ci sia spazio anche per il ruolo femminile.
  • E non possiamo separare le devozioni o i riti della pietà popolare sganciandoli dalla liturgia, che invece ne è sempre stata l’alimento e la fermentazione (cf. le tradizioni della Settimana Santa). Altrimenti la riforma liturgica da fallimentare diventerà disastrata.

In sintesi, Andrea Grillo, Laico, docente di Liturgia a Sant’Anselmo, Roma, e a Santa Giustina, Padova.

Si «impone una de-clericalizzazione radicale e urgente, che possa dire tre cose decisive, anche se niente affatto nuove.

1.   L’assemblea celebrante è il corpo di Cristo risorto (e quindi non può in alcun modo essere pensata o resa accessoria);

2.   l’assemblea ha bisogno di più ministeri, non solo del presbitero;

3.   le donne possono esercitare funzioni d’autorità, perché possono e debbono essere riconosciute titolari di un ministero in senso forte e pieno. Nelle donne è implicato e si esprime l’annuncio apostolico, dal quale dipende la stessa tradizione ecclesiale nella sua piena verità». (Il Regno 8/2020, 201)

(Pensiamo alle tante donne che di fatto in molti luoghi dell’America Latina hanno conservato e tramandato la fede come guide e animatrici delle comunità)

5. Essere chiesa e fare chiesa: quale chiesa?

La domanda sulla messa si riverbera sulla chiesa. Strutture? Sì, il necessario. Forse ne abbiamo troppe, e vuote. Soprattutto abbiamo bisogno di fare chiesa. Da un Consiglio Pastorale Parrocchiale (Pieve di Curtarolo) è emersa come prima esigenza: coltivare le relazioni! Che significa fare le scelte che aiutano a essere chiesa. Ma ci sarà davvero più chiesa dopo questo periodo? La solitudine insegnerà a fare comunità o la convivenza forzata accentuerà la divisione e l’individualismo? A volte si impara, altre volte non si impara nulla. Occorre inventiva pastorale.

Sarà la sfida di creare comunità vive che “insieme” testimonino e annuncino l’esplosività della Parola-Vangelo intessendo relazioni. Come chiesa dobbiamo costruire legami pieni di vita, che si trasformino in affetto e amore. Costruire rapporti veri tra gli uomini, in cui a valere non sono solo i “propri diritti” alla libertà (anche alla forma di culto), senza pensare a quelli altrui. Comunità è pregare, ascoltare, pensare e fare le cose insieme, perché la qualità della vita dipende solo dal sapere come vivere insieme e non isolati.

Mai come oggi resta attuale l’immagine della “chiesa ospedale da campo”. Curarci a vicenda, anche se i curatori qualche volta rischiano di essere infettati dai malati. Ma senza curatori, sia pure con attenzione a non infettarci, raccoglieremmo solo cadaveri e bare.

Resta una domanda: quale modello di comunità? Ce lo offre il Concilio. Due voci, da luoghi diversi ma convergenti sul modo di percepire la chiesa, pongono lucidamente la questione ecclesiale.

5.1. Rocco d’Ambrosio (Gregoriana, Roma): la libertà inafferrabile della Parola

«Il digiuno eucaristico forzato … pone… in evidenza una frattura esistente nella Chiesa italiana da diversi anni e che emerge ogni qualvolta si toccano temi sociali, culturali, politici, economici. Si tratta di modelli di Chiesa diversi. Per questa distinzione qualcuno ha osato persino introdurre la categoria di scisma sommerso. Che sia tale o no, resta il dovere di aprire o continuare un dibattito che, nella sua profonda radice, riguarda la domanda su quale sia il modello di Chiesa più fedele alla missione affidataci da Gesù Cristo per i nostri tempi. Non ci sono dubbi che la discriminante, tra i due modelli, sia il concilio Vaticano II, vera e propria pietra angolare o, spesso, pietra di scandalo e, attualmente, il magistero di papa Francesco.

Per farsi rinnovare dal Concilio, al di là delle esperienze personali e comunitarie, bisogna mettere in crisi quel modello di Chiesa che sembra avere molte certezze e pochi dubbi; che insiste solo su alcuni temi morali e trascura altri, che ricerca la maggioranza numerica e la preminenza culturale; che tende ad accrescere privilegi e sussidi statali; che non è molto vigile su degenerazioni del potere e corruzione; che si organizza in maniera molto gerarchizzata e clericalizzata; che forma male e promuove poco il laicato, che è più rituale e meno caritativa. È lo stesso modello di Chiesa che sembra essere poco attento ai temi cari a questo pontificato.

L’accoglienza di questi temi richiede, in molti casi un cambiamento radicale, o, come ha spiegato il pontefice, un frantumare alcuni schemi consolidati. A tal proposito è illuminante un passo dell’Evangelii gaudium: “La Parola ha in sé una potenzialità che non possiamo prevedere. Il Vangelo parla di un seme che, una volta seminato, cresce da sé anche quando l’agricoltore dorme (cfr Mc 4,26-29). La Chiesa deve accettare questa libertà inafferrabile della Parola, che è efficace a suo modo, e in forme molto diverse, tali da sfuggire spesso le nostre previsioni e rompere i nostri schemi” (n. 22)».

5.2. Il vescovo argentino Eduardo Garcia (cf. 4.2): Vangelo e Spirito, comunità in cammino

«Credo che servirà a poco la graduale riapertura delle chiese se non ci sarà una riapertura radicale della Chiesa di fronte alla realtà. Dobbiamo fare un salto di qualità, da una Chiesa fede e sacramenti (detentrice della verità e depositaria della salvezza) a una Chiesa Vangelo e Spirito (quella di una comunità in cammino). Sono consapevole che questo richiede un cambio di marcia importante per gran parte della Chiesa cattolica. Ciò che definisce un cristiano non è l’essere virtuoso od obbediente, ma il vivere confidando in un Dio vicino, dal quale si sente amato incondizionatamente e che gli ha promesso la sua presenza sempre. Non dobbiamo dimenticare mai il dovere di attenzione spirituale e materiale verso i malati, gli anziani, i poveri, i bambini e le persone vulnerabili, che sono la preoccupazione più grande della Chiesa».

Si tratta di vivere una chiesa a porte aperte o a porte chiuse (come è avvenuto per le messe in questo tempo, e ci vanno strette), una chiesa inclusiva o esclusiva, incapace di ascoltare e confrontarsi, oltre che con la Parola anche con la cultura e le provocazioni che le vengono dalla storia, dai “segni dei tempi”.

5.3. Pare importante anche un accenno a quella che Papa Francesco nomina spesso come deriva “gnostica” (altre volte richiama il pericolo pelagiano: fiducia solo nelle proprie forze). È il segno di una fede disincarnata e di una comunità soltanto virtuale, individualistica. È una sfida, perché tale mentalità è nella cultura quotidiana. Nell’omelia del 17 aprile, ha parlato di «familiarità gnostica, staccata dal popolo di Dio». Ha iniziato spiegando che il culto Online non potrà diventare la norma da adottare quando saremo fuori dall’emergenza:

«Dico questo perché qualcuno mi ha fatto riflettere sul pericolo che in questo momento che stiamo vivendo, questa pandemia che ha fatto che tutti ci comunicassimo anche religiosamente attraverso i media, attraverso i mezzi di comunicazione, anche questa Messa, siamo tutti comunicanti […] stiamo insieme, ma non insieme. Anche il sacramento: oggi ce l’avete, l’Eucaristia, ma la gente che è collegata con noi, soltanto ha la comunione spirituale. E questa non è la Chiesa: questa è la Chiesa di una situazione difficile, che il Signore permette, ma l’ideale della Chiesa è sempre con il popolo e con i sacramenti. Sempre».

Come esempio ecco i risultati di una ricerca, che fanno riflettere (Paolo Santori, Avvenire 24/04/2020, 15).

Un gruppo di docenti e ricercatori della Scuola di Economia Civile e del Centro di ricerca Cerbe dell’Università Lumsa di Roma ha predisposto un questionario sull’impatto che l’epidemia di Covid-19 e le misure di distanziamento sociale stanno avendo sulla vita quotidiana. Alcune delle domande sono dedicate al tema della preghiera, della spiritualità e del culto online. Nonostante si sia ancora nella fase preliminare dell’analisi dei dati raccolti in Italia, tre risultati possono essere già evidenziati.

Il primo: di coloro che hanno dichiarato di seguire in queste settimane tutti i giorni o spesso la Messa in tv (18% del campione di coloro che si definiscono cattolici) quasi il 40% ha anche dichiarato che prima partecipava alla Messa meno di una volta al mese.

Secondo risultato. Gli intervistati dovevano dire quanto erano d’accordo con questa affermazione: «La funzione religiosa sui social network (ad. es Facebook e YouTube) non può essere come quella in presenza perché sui social manca l’incontro fisico con la comunità». Il 30% ha dichiarato di essere fortemente in disaccordo, ritenendo implicitamente che Messa online, celebrazione virtuale, e Messa in chiesa, celebrazione reale, siano in qualche modo intercambiabili. Di questo 30% quasi il 20% si recava in chiesa una volta alla settimana, mentre oltre l’80% meno di una volta al mese. Questo potrebbe rassicurare coloro che paventano un rischio di “gnosticismo”: chi si recava spesso in chiesa nota una differenza sostanziale tra il culto virtuale e quello in presenza.

Terzo risultato. Questa volta gli intervistati erano chiamati a confrontarsi con la seguente affermazione: «La funzione religiosa su schermo (social network o tv) è migliore perché più accessibile». Il 34% ha dichiarato di essere fortemente d’ accordo. All’interno di questo gruppo, se il 64% va a Messa in chiesa meno di una volta al mese, il 35% però ci va regolarmente. Questo risultato è simile a quello di un altro quesito in cui «più accessibile» è sostituito da «migliore perché non si perde tempo a spostarsi». La comodità sembra allettare anche coloro che si recavano spesso in chiesa prima dell’epidemia.

Incrociando i tre risultati possiamo allora individuare alcuni gruppi a potenziale rischio di gnosticismo: 1) la percentuale della popolazione italiana che si dichiara cattolica e non sembra percepire un disagio dalla mancanza fisica della comunità; 2) la popolazione che non andava a Messa e che, a seguito del distanziamento sociale, ha cominciato a frequentare il culto online, posto che non torni a frequentare le chiese una volta finita l’emergenza 3) la piccola percentuale di cattolici italiani che sembra disposta a passare dal culto in presenza a quello virtuale. La ragione principale per il terzo gruppo è legata alla minore fatica impiegata – il cosiddetto «costo di attivazione» – per partecipare alla funzione religiosa virtuale rispetto a quella in presenza.

Riguardo a quest’ultimo punto, in uno studio del 2008 Luigino Bruni e Luca Stanca hanno dimostrato che tanto più sperimentiamo le relazioni virtuali, legate a bassi costi di attivazione, tanto più sarà costoso sperimentare nuovamente quelle in presenza. Inoltre, i media di ultima generazione tendono a sfumare la differenza tra Online e Offline. Sono migliaia le lettere che vengono inviate ai protagonisti delle serie tv, chiedendo di rispondere alle domande indirizzate non alle attrici ma ai personaggi, come fossero le stesse persone.

In genere entriamo in questi processi cognitivi senza neanche il tempo di interrogarci sulla natura delle relazioni che viviamo. Una nuova ondata di “gnosticismo” potrebbe emergere quindi come effetto non intenzionale del culto virtuale. È più facile che approderemo allo “gnosticismo” per questa via piuttosto che per un radicato convincimento teologico.

Verrà il giorno in cui penseremo che vedere una Messa è esattamente come assistervi di persona, nel quale la realtà coinciderà con la sua maschera (persona, in latino)?

Per concludere

L’evento che stiamo vivendo ha messo a nudo le diversità e rivelato anche le divisioni tra credenti, così come tanta fragilità. Ma, al di là di alcune polemiche sterili, ha rivelato anche inventiva e creatività, nuove possibilità, e provocato molte riflessioni e testimonianze: una occasione da non perdere.

L’Eucaristia resta il «centro e culmine» della vita cristiana, ma occorre impedire che diventi una specie di self service della grazia e troppo incentrata sul presbitero. Anche con le chiese aperte resta vero che non c’è chiesa senza Eucaristia, ed è altrettanto vero che non c’è Eucaristia senza chiesa. Che prega e ascolta insieme la Parola di Dio e insieme loda il Signore, lasciandosi educare e trasformare, per testimoniare la carità del Signore e la gioia del Vangelo in mezzo a tutti i fratelli.

Prima del fare e prima delle strategie, non possiamo sottrarci alle questioni di fondo. Il ritorno sulle domande essenziali della fede è necessario, per una fede adulta, soprattutto la fides qua creditur, l’atteggiamento che ci porta a cercare sempre, per rinnovare nei credenti l’apertura all’infinito di Dio e della sua Parola, per impedire che si ricada nella manipolazione idolatrica del Signore che si è affidato a noi. Speriamo che ciò accada e di essere in grado di proporlo. Senza scambiare la “rappresentazione” con la realtà!

Per questo ogni comunità deve guardarsi attorno e prestare attenzione ai più deboli. Oltre alle solite debolezze, questa situazione ha rivelato la forte precarietà del lavoro e la debolezza delle categorie più anziane, spesso sole, e quindi la necessità di accompagnare i malati. Ma ha anche mostrato il valore e le possibilità dei giovani e dei tanti ministeri.

Come vivere comunitariamente anche l’esperienza eucaristica virtuale in questo tempo di necessità e anche in futuro, quando non sia possibile stare in chiesa? Siamo stimolati a dar valore a tutte le capacità riemerse in questi tempi, tutti i doni che abbiamo come cristiani e che ci consentono di esercitare il nostro sacerdozio battesimale, come ci ricorda una donna laureata in teologia pastorale (Assunta Steccanella): la capacità di “celebrare” in famiglia e nella propria casa dei momenti di preghiera che possano farci sentire in comunione con i fratelli pur non essendo fisicamente insieme.

«Penso a un presbitero che durante la celebrazione eucaristica dà il mandato ai genitori di benedire la propria famiglia o di benedire il pane che mangeranno a tavola. In questo modo in famiglia ci sarà un riflesso, un ritorno, di quell’azione comunitaria per sentirsi comunque in comunione con qualcuno di reale che celebra per te. Sono forme ed espressioni che si stanno manifestando in vari modi e che andranno valorizzate proprio perché abbiamo cercato per tanto tempo di dire il valore della preghiera familiare».

È il caso di riprendere e attuare il “ministero della famiglia”, ben presente nei primi catechismi italiani (soprattutto quello dei bambini), ma poi passato in dimenticanza e in un silenzio indifferente? Mi pare utile concludere con Andrea Grillo:

«Le porte chiuse (di questi tempi) aprono un doppio compito, meravigliosamente complicato: a chi in chiesa ci può stare, di starci diversamente. A chi in chiesa non ci può stare, di saper essere chiesa altrove e diversamente». (Andrea Grillo, Il Regno 8/2020, 202)

tags: