di LUIGI D’ANDREA
La conferenza stampa del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte della serata di domenica, 26 aprile, ha presentato al Paese i contenuti essenziali della normativa che intende segnare il lento e prudente avvio della cosiddetta “fase 2” dell’emergenza coronavirus: essa sarà caratterizzata dalla ricerca di una molteplicità di punti di equilibrio – inevitabilmente faticosi e discutibili – tra l’esigenza di progressivamente riavviare attività economiche e sociali che, nelle lunghe settimane che speriamo di presto mettere alle nostre spalle, sono state vietate, o comunque sospese, e l’istanza di tutela della vita e della salute dei cittadini. Nel lungo e complesso articolato del relativo decreto del Presidente del Consiglio, si prevede, all’art. 1, lett. i), che “l’apertura dei luoghi di culto è condizionata all’adozione di misure organizzative tali da evitare assembramenti di persone, tenendo conto delle dimensioni e delle caratteristiche dei luoghi, e tali da garantire ai frequentatori la possibilità di rispettare la distanza tra di loro di almeno un metro”, restando sempre sospese “le cerimonie civili e religiose” ed essendo “consentite le cerimonie funebri con l’esclusiva partecipazione di congiunti e, comunque, fino ad un massimo di quindici persone, con funzione da svolgersi preferibilmente all’aperto, indossando protezioni delle vie respiratorie e rispettando rigorosamente la distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro”. Rispetto ad una simile opzione, non ha tardato a prendere criticamente posizione la CEI, che ha lamentato la permanente ed arbitraria preclusione della “possibilità di celebrare la Messa con il popolo”, ha richiamato la distinzione tra il dovere delle autorità civili “di dare indicazioni precise di ordine sanitario” ed il dovere della Chiesa di “organizzare la vita della comunità cristiana, nel rispetto delle misure disposte, ma nella pienezza della propria autonomia”; in conclusione del comunicato, si afferma che “i Vescovi italiani non possono accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto”, e che “dovrebbe essere chiaro a tutti che l’impegno di servizio verso i poveri, così significativo in questa emergenza, nasce da una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale”.
Si tratta di un dissenso aperto e di non trascurabile importanza. E non mancano ragioni a sostegno dell’una come dell’altra posizione: infatti, comprensibili risultano tanto la prudenza delle autorità civili nel procedere all’alleggerimento dei vincoli e dei limiti che hanno fin qui condotto all’apprezzabile contenimento della diffusione del contagio, quanto la preoccupazione dell’autorità religiosa di potere presto tornare alla celebrazione della liturgia eucaristica alla concreta presenza della comunità dei fedeli. Pure, non è possibile tralasciare di considerare i rischi cui la presente situazione emergenziale espone tanto le prime quanto le seconde: le autorità civili rischiano di – per così dire – “familiarizzarsi” con la condizione (generata e legittimata dall’emergenza) di accentramento del pubblico potere e di drastica riduzione degli spazi di libertà garantiti a tutti i cittadini (singoli ed associati), a vantaggio di un regime in cui ogni attività (compresa la passeggiata fuori dalle mura domestiche…) debba essere autorizzata dal Governo; le autorità religiose (ed in generale le molteplici autorità sociali) sono esposte al rischio di entrare in polemica con il potere pubblico secondo una logica, sostanzialmente corporativa, di rivendicazione di spazi di libertà solo per se stesse e per i diversi gruppi di riferimento, quasi che si trattasse di far valere uno status peculiare all’interno del consorzio civile (espressione pubblica di una condizione di forza, se non di un singolare privilegio…).
A me pare che tali rischi possono e devono essere contrastati collocandosi all’interno della prospettiva dischiusa dalla Carta costituzionale, che riconosce a tutti i soggetti l’eguale godimento dei diritti inviolabili dell’uomo: se è certamente legittima una compressione, anche assai marcata, di alcuni diritti fondamentali in ragione dell’esigenza di offrire una tutela adeguata a taluno di tali diritti (nel nostro contesto, la vita e la salute) esposti a grave rischio da una situazione eccezionale (la pandemia da COVID19), è parimenti richiesto che tali limitazioni risultino sempre strettamente necessarie a tale scopo e altresì proporzionate all’esigenza di sacrificare nella minore misura possibile (alle condizioni effettivamente date) il complessivo patrimonio di interessi costituzionalmente protetti (naturalmente, a partire dalle libertà costituzionali). Una lezione preziosa, quella che ci impartisce la nostra Costituzione: al potere pubblico chiede di operare sempre in direzione di una tutela effettiva ed equilibrata di tutti i principi costituzionali, senza considerare per sistema qualcuno di essi recessivo rispetto agli altri; alla comunità ecclesiale chiede di spingere in direzione non della rivendicazioni di privilegi o di spazi di potere per sé sola (come non di rado nella storia purtroppo è accaduto…), ma della garanzia di libertà e di tutele per tutti, naturalmente, nel rigoroso rispetto delle norme generali ed astratte poste dal legislatore civile a presidio della sanità pubblica.