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PAOLO VI SANTO Un istante di pienezza

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15 Ottobre 2018

di TIZIANO TORRESI

I cittadini di Olbia osservavano incuriositi. Che avesse di pericoloso quel manipolo di universitari cattolici che gironzolava per la città proprio non lo capivano. Eppure, in quel mattino del settembre 1932, la polizia, i soldati e gli avanguardisti non avevano sentito ragioni. Manco si fosse in guerra avevano fatto salire a bordo della nave per Civitavecchia le ragazze e lasciato a terra i loro compagni, che ora, alloggiati in vecchi vagoni di terza classe e ospizi di fortuna, aspettavano l’indomani per imbarcarsi. Dopo le manganellate prese nel maggio dell’anno prima avevano l’aria spensierata di chi incassa ma sorride. Mettevano in scena siparietti goliardici sulla piazza cittadina, sotto gli occhi d’un gentile prete bresciano che conversava col parroco e che molto e invano si era adoperato dinanzi alle autorità per farli imbarcare. Cosa c’era da temere da quella gioventù?

Il fascismo lo sapeva. Lo sapevano le spie e la polizia segreta che da tempo scrivevano esplicitamente che quei giovanotti della Fuci avevano personalità, strutture e risorse culturali per diventare l’alternativa più insidiosa al regime. La storia avrebbe dato loro ragione. Su una cosa però si sbagliavano. Scrivevano a più riprese che il prete bresciano che li guidava era un «audace organizzatore» (G. Adornato, Paolo VI, 2018, p. 100). Il che era vero. Ma solo a metà. Era vero che Giovanni Battista Montini molto si era speso per dar forma e struttura a quell’instabile e ristretto gruppo di studenti liberi in una Chiesa sempre più di massa e in un’Italia sempre più fascista. Era vero, egli aveva in tasca, quel giorno di settembre, la risoluzione da portare a Pio XI e messa ai voti dai fucini, a notte fonda nel congresso di Cagliari, che avrebbe fatto nascere il Movimento Laureati, organizzazione pensata proprio per infondere lo spirito della Fuci nella vita adulta. Ma la sua audacia era altrove. La prova più eloquente è nell’aureo testo Spiritus Veritatis, la regola di vita che Montini aveva loro dato, la sintesi della sua pedagogia spirituale.

In un tempo di geometriche scenografie e marziali schieramenti Montini assegnava il primato all’ordine interiore. In un tempo di sicurezze a buon mercato e di verità preconfezionate Montini stimolava l’inquietudine del conoscere,  insegnava a non agitarsi a partire dai dettati della propria fantasia, ma a trasformare ogni meta dello studio in un punto di partenza per successive immersioni nel sapere. In un tempo dove ai giovani doveva bastar «credere, obbedire, combattere», Montini chiariva come la vocazione allo studio non fosse solo una strada per adempiere il proprio dovere ma per cercare una risposta all’inconsueto interrogativo che i giovani rappresentano a loro stessi. In un tempo di eroi solitari e di virili superuomini Montini insegnava a rinunciare al proprio egoismo, a lasciare operare, con umiltà, lo Spirito, a gareggiare, da uomini semplici, nello stimarsi a vicenda. In un tempo di azzardi, di velocità e di sprezzo del pericolo Montini insegnava a superare, con pazienza, la tentazione delle improvvisazioni, delle affermazioni impulsive, a dare alla preparazione professionale le migliori fatiche. In un tempo di provincialismo e di asfissia culturale Montini garantiva l’ossigeno della teologia e della filosofia europea ai polmoni di quei giovani. Era questa l’audacia di cui il regime doveva avere paura.

E audace, se non temerario, fu il tentativo di custodire e dare nuovo significato a questa pedagogia della coscienza e dei tempi lunghi dentro i cenacoli dei Laureati cattolici. Letta alla luce di Spiritus Veritatis la loro, la nostra storia appare come la conferma del proposito di serietà che quei giovani, e tanti dopo di loro sino a noi, hanno compiuto: non nascondere sotto terra i propri talenti intellettuali ma investirli in una cultura religiosa in grado di ispirare e di sorreggere le competenze dello studioso e del professionista, in qualsiasi campo. 

Un altro caposaldo della nostra storia affiora nella luce del pensiero di Montini. Lo sguardo di  fiducia e di comprensione verso il mondo che ha contraddistinto gli intellettuali dell’Azione Cattolica. Uno sguardo senza timori, senza rancori, senza complessi di inferiorità, capace di scrutare dentro le cose, senza fermarsi alle apparenze, alle emozioni superficiali, al sentito dire. Consapevole che il mondo non va condannato o combattuto, accettato in modo acritico o rincorso per le mode che vi prosperano ma sempre, e sopra ogni cosa, amato e compreso. Amato con il sangue della carità e compreso con l’inchiostro della scienza. Lo scriveva Montini: «questo nostro tempo dev’essere amato con una potenza d’anima straordinaria; dev’essere penetrato nella sua indole, nei suoi bisogni, nelle sue risorse» con un atteggiamento «pieno di comprensione, avido di amicizia, pronto ad assorbire il bene e fecondarlo ovunque si trova» (g.b.m. L’interesse del Congresso, in “Azione fucina”, 18 agosto 1929). L’intelligenza della fede che, pur con tanti limiti, è stata il contributo che abbiamo potuto offrire in un secolo alla Chiesa e all’Italia, ha qui la sua verifica: nella condizione di poter amare e conoscere il mondo con la carità intellettuale, di poter chiamare per nome i frutti buoni e quelli cattivi del nostro tempo, di discernerli con cura, uno per uno, alla luce dello Spirito.

Viene tuttavia da chiedersi quale forza abbia consentito a tutto questo di non ridursi ad un astratto esercizio retorico. La risposta può darla ciascuno di noi, e per ciascuno di noi ha una sfumatura e un’intensità personalissime. Si chiama amicizia.

Siamo pochi, lo siamo sempre stati, pochi. Ma, proprio per questo, abbiamo l’eccezionale fortuna, che spesso dimentichiamo, di chiamarci e di conoscerci per nome. Per nome, uno ad uno, Paolo VI, il 24 aprile 1970, tornato da pontefice a Cagliari, nel Santuario di Bonaria dove era nato il Movimento, per nome chiamò i Laureati cattolici e gli ex fucini che gli facevano corona per salutarlo. Chiamò i presenti e quelli che non c’erano più: non solo prodigio di memoria ma evangelica testimonianza: Vi ho chiamati amici (Gv 15,15). E commosso da quel fuoco di amicizia tornato a scaldarlo dopo tanti anni, disse: «Questo è un istante di pienezza, uno di quegli istanti che conferiscono senso alla vita, la rivelano a se stessa, in ciò che è stata e in ciò che deve essere» (Insegnamenti, X, 1970, pp. 369-370).

Che domani sia anche per ciascuno di noi un istante di pienezza!

È un’imbarcazione piccola e malandata quella dei movimenti in cui navighiamo e le nuvole sulla Chiesa e l’Italia annunciano burrasca. Ma siamo certi che a prua, come in quel faticato approdo a Civitavecchia ritratto in una nota fotografia del settembre 1932, c’è un gentile prete bresciano, col suo volto sorridente e luminoso, cui l’aureola di santità che domani gli verrà riconosciuta poco aggiunge per noi che, nella nostra storia e nel nostro animo, lo abbiamo avuto maestro e amico. 

(Meditazione pronunciata in occasione della veglia di preghiera organizzata da Meic, Fuci e Azione Cattolica alla vigilia della canonizzazione di Paolo VI. Roma, S. Maria in Transpontina, 13 ottobre 2018)