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Dopo il terremoto elettorale

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26 Giugno 2018

Il 23 giugno scorso il Consiglio nazionale del Meic, riunito a Roma, ha ospitato un intervento del costituzionalista Marco Olivetti (Lumsa) per analizzare la situazione della politica italiana dopo il terremoto elettorale del 4 marzo e la successiva e complicata nascita della inedita maggioranza di governo tra il Movimento 5 Stelle e la Lega.

Il professor Olivetti si è soffermato sulla crisi sociale e democratica in corso a livello globale e in particolare nel nostro Paese, sulle spinte al cambiamento causate soprattutto da una sorta di “deficit di protezione” (sociale, territoriale, dei servizi, delle frontiere), sulla disfatta delle forze di sinistra e sulla sostanziale irrilevanza dei cattolici, per domandarsi infine quali anticorpi sono ancora presenti nel nostro sistema democratico e sono pronti ad attivarsi in caso di un aggravamento della crisi.

Riportiamo di seguito l’intervento integrale di Marco Olivetti.

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LA POLITICA ITALIANA DOPO IL TERREMOTO ELETTORALE

Marco Olivetti

1. Il 4 marzo 2018 le elezioni politiche italiane hanno sconvolto il panorama politico nazionale. Si tratta senza dubbio di un caso di watershed elections, di elezioni spartiacque.

Un movimento populista dall’identità tuttora incerta ha ottenuto un terzo dei voti validi. All’interno della coalizione di centro-destra, che ha conseguito la maggioranza relativa dei voti e dei seggi, un partito populista di destra ha visto crescere i suoi consensi dal 4,5 del 2013 al 17 per cento del 4 marzo.

Dal 1° giugno il governo del Paese è basato su una coalizione fra queste due forze: un partito che nel Parlamento europeo condivide il gruppo parlamentare con lo UKIP di Nigel Farage ed un partito che in tale contesto condivide il gruppo con il Front National de Marine Le Pen. Due forze che è difficile non considerare, in qualche modo, antisistema, anche se non è del tutto chiaro in che senso e in che modo esse si contrappongano al “sistema” (o a ciò che ne resta). Ci troviamo, almeno da un punto di vista politico, davanti ad un cambiamento di grande rilievo e non privo di rischi.

Il cambiamento – e l’ascesa dei populismi (il presidente francese Emmanuel Macron ha giustamente parlato di una “lebbra”) – non riguarda solo il nostro Paese: anzi il risultato del 4 marzo arriva dopo il referendum sul Brexit, l’elezione di Donald Trump ed i referendum del 2016 in Colombia e in Italia. Tuttavia, il 2017 aveva fatto registrare – nelle consultazioni svoltesi in Olanda, Francia, Regno Unito e Germania per il rinnovo dei rispettivi parlamenti – una attenuazione delle spinte populiste, ora fortemente riemerse con le nostre elezioni. Anche se non è un caso unico, l’Italia è senza dubbio uno dei laboratori di questo cambiamento, dell’ascesa del populismo in tutto l’Occidente, se non su scala globale.

2. Si può forse aggiungere che, secondo alcuni osservatori, l’ascesa dei populismi è parte di una crisi generale sia della globalizzazione che della democrazia liberale, i due grandi vincitori dell’epoca apertasi nel 1989 con la fine del comunismo europeo. Alcuni hanno individuato negli ultimi anni una tendenza alla de-globalizzazione, nella quale le spinte che avevano determinato per cinque lustri l’abbattimento di barriere fisiche e commerciali, l’espansione di nuove tecnologie idonee a rendere connesso il mondo si sarebbe quantomeno arrestata, se non proprio interrotta. Altri hanno sottolineato il successo di leader autoritari in regimi caratterizzati da forme di mixage fra democrazia e autoritarismo (Russia, Turchia, Venezuela, Bolivia) e financo in regimi che restano – malgrado tutto – democratici: si pensi all’Ungheria di Viktor Orban ed agli Stati Uniti di Donald Trump. E persino nello Stato autoritario cinese l’eliminazione del limite dei due mandati per la presidenza della Repubblica è stata vista come una forma di regressione verso un autoritarismo ancor meno razionalizzato, col ritorno a leadership personalistiche, che si pensava appartenessero al passato del “Paese di mezzo”.

3. Come guardare a queste vicende politiche, anzitutto italiane, ma anche globali? Sono ovviamente possibili diversi tipi di approcci. Provo a forzare – a scopo analitico – una contrapposizione ben nota alla storia politica italiana, di grande rilievo dal punto di vista della tradizione del cattolicesimo democratico. Potremmo interrogarci sugli eventi e sul “Che fare?” seguendo un metodo che potrebbe richiamarsi all’esperienza di Giuseppe Dossetti: occorrerebbe allora una lettura profetica della nostra società e del nostro sistema politico (visione di una società ideale), da cui si potrebbe forse ricavare una esigenza di testimonianza radicale. Oppure potremmo utilizzare un “metodo De Gasperi”, che guardi alla politica quotidiana consapevole della sua estrema complessità e sia conscio del necessario gradualismo della politica e soprattutto del pericolo che le acquisizioni storiche della nostra democrazia siano rimesse in gioco. Uno sguardo che avrebbe di mira, più che l’esigenza di una testimonianza profetica in vista di una società ideale, la preoccupazione di preservare il quadro democratico, le istituzioni pluraliste e il progetto europeo. Il mio ragionamento di oggi si muove in questa seconda prospettiva.

4. In primo luogo ci si potrebbe chiedere se ci troviamo davanti ad una crisi della democrazia o addirittura ad una crisi della società europea (e in ispecie di quella italiana)?

La prima ipotesi ci porterebbe a dire che il passaggio attuale è segnato dai difetti del processo decisionale democratico, nel quale dovrebbe esistere un qualche deficit: a non funzionare sarebbero i meccanismi di trasmissione degli orientamenti politici dai cittadini elettori agli apparati di governo.

La seconda ci condurrebbe a vedere nella situazione attuale il riflesso – rettamente canalizzato dalle procedure democratiche – di una crisi della società italiana.

5. Quali le coordinate della crisi sociale? Viviamo nell’età del declino: demografico, morale e culturale. Ma il declino può essere lungo e soggettivamente splendido per le persone che attraversano questo tipo di periodi storici. Tuttavia è evidente l’incapacità di pensare all’interesse generale, all’investimento sul futuro; e pure lo schiacciamento sui problemi immediati. L’individualismo estremo che ci attraversa è forse la causa ultima della devastante crisi dei corpi intermedi come forme di aggregazione sociale pre-politica e politica. La solitudine del cittadino globale e lo scollamento fra popolo (ma meglio sarebbe dire: singole persone, che non riescono più ad essere collettivo sovraindividuale) – ed élite rende il voto sempre più un atto arbitrario, irrazionale, umorale. E quanto più alta è la partecipazione, tanto più ciò è vero. Il voto è sempre più spesso la confessione di un malessere personale che l’espressione di una scelta per una visione del bene comune.

6. Come leggere su questo sfondo il risultato del 4 marzo? Proverei ad argomentare che questo voto può essere forse non spiegato ma almeno in parte compreso attorno a tre parole-chiave: cambiamento, protezione, comunicazione. Ovviamente si tratta di una semplificazione arbitraria e senza dubbio – anche se si prende per buona questa lettura – esistono altre cause del risultato elettorale.

7. La prima parola è cambiamento e ci ricorda un trend magari banale, ma che forse va sottolineato. Nella storia italiana le elezioni politiche non hanno mai prodotto una vera e propria alternanza al governo dal 1848 al 1992 compreso, ma tutte le elezioni svoltesi dal 1994 ad oggi hanno prodotto un cambiamento di maggioranza. E quasi tutti i governi e le maggioranze che vanno al voto in questo specifico momento nelle più varie parti del mondo occidentale vengono sconfessati dagli elettori, ora in maniera molto netta (Spagna 2015, Francia 2017), ora in maniera più attenuata (Germania 2017) e ciò accade in qualche modo anche quando l’elezione sembra vinta in partenza (Regno Unito 2017). A parte gli Stati ormai pseudo-democratici (Russia, Turchia) situati ai nostri confini, gli incumbent hanno quasi dovunque grandi chance di perdere le elezioni, anche se gli effetti dei risultati elettorali sui sistemi politici variano poi sensibilmente da caso a caso, anche a seconda dei sistemi elettorali e istituzionali.

Naturalmente, in questo scenario il risultato elettorale italiano ha la sua specifica gravità: la coalizione che ha governato dal 2013 al 2018 non è stata solo relegata all’opposizione, ma ha perso anche il ruolo di principale minoranza. E dentro il centro-destra per la prima volta Berlusconi non ha solo perso una elezione, ma ha perso la leadership della sua area politica: dopo 24 anni si tratta forse della sua prima vera sconfitta elettorale. Del resto il leader del centro-destra, dopo aver governato in prima persona negli anni 2001-06 e 2008-11, è stato comunque alla base dei governi Monti e Letta e attraverso il Patto del Nazareno ha influito sul governo Renzi. Questo conferma la tendenza a sanzionare gli incumbent, anche se atipici come nel caso di Forza Italia e del suo anziano leader.

8. La tendenza al cambiamento non basta però a spiegare il risultato. A mio avviso questo risultato denuncia un deficit di protezione. Mi ha molto colpito che il verbo proteger e il sostantivo protection siano stati utilizzati molte volte nel discorso della vittoria di Emmanuel Macron lo scorso anno. Si tratta di un verbo che evoca molteplici fenomeni, ma che in primo luogo rimanda alla funzione fondamentale dello Stato moderno (e più in generale del potere pubblico). Lo Stato esiste per proteggere i suoi cittadini e lo stesso in qualche modo può essere detto per gli altri enti territoriali, come la Regione, il Comune e la stessa l’Unione europea (anche se ciò, ovviamente, non esclude la necessaria solidarietà fra Stati, come fra territori). La protezione era inizialmente rivolta soprattutto contro le minacce esterne (difesa) e contro i turbamenti della pace sociale (ordine pubblico), ma si è poi estesa a varie altre sfere ed oggi ha dimensioni molto varie, che includono anche una dimensione di sicurezza economica. La protezione offerta dallo Stato ha le sue deformazioni (una di esse è il protezionismo), ma senza di essa lo Stato e i poteri pubblici perdono la loro giustificazione. Questa funzione si è modificata nella società della globalizzazione, ma non è scomparsa, perché questa società è anche la società del rischio globale.

9. Sottolineando il deficit di protezione, si possono evocare diverse dimensioni, ma credo che una di esse riguardi il fenomeno migratorio.

Negli anni fra il 2014 e l’inizio del 2017 il numero dei migranti entrati in forma irregolare nel nostro Paese via mare è stato di quasi 200.000 persone ogni anno. Si tratta di un numero che l’Italia non era e non è in grado di assorbire. Si tratta fra l’altro di una immigrazione che ha operato con modalità diverse da quelle precedenti in quanto è stata in parte assistita negli arrivi e dopo gli arrivi, in quanto canalizzata nelle procedure di richiesta di asilo politico. Le ragioni di questa esplosione negli arrivi sono molte e assai complesse e in buona misura non dipendenti da scelte del governo italiano. Ma in parte delle scelte vi sono state: e sono state le operazioni Mare Nostrum e Triton.

Che questa politica – certo motivata da nobili ragioni umanitarie – fosse insostenibile è stato silenziosamente confessato dalla stessa maggioranza di governo degli anni 2013-18, come il cambiamento di orientamento deciso dal ministro Minniti all’inizio del 2017 ha eccellentemente dimostrato. Il numero degli ingressi irregolari via mare è sceso al ben più ragionevole – e in fondo gestibile – livello di circa 30.000 persone all’anno. Ma per tre-quattro anni i cittadini italiani si sono visti esposti a flussi di dimensioni non sostenibili e hanno avuto la percezione che il loro crescente malumore di fronte a questo fenomeno fosse ignorato dalle autorità politiche (e sfruttato da abili imprenditori della paura, ma a mio avviso ciò è secondario: costoro non hanno creato il malumore, lo hanno solo canalizzato e utilizzato per i loro fini di potere).

Su questo tema credo sia necessario chiedersi se le frontiere svolgano ancora una funzione nel nostro tempo. A mio avviso la risposta è positiva. Lo Stato, che esse delimitano, non è certo più quello del periodo 1870-1914, quello di Bismarck e Laband, suicidatosi nella prima guerra mondiale. Ma anche nell’era della globalizzazione resta il principale ente erogatore di protezione e fra le prestazioni attese da esso c’è proprio la protezione dalle minacce esterne. Lo Stato esiste per i suoi cittadini, di cui è ente esponenziale. Certo, esso ha anche responsabilità verso l’esterno, ma è in primo luogo ente esponenziale degli interessi di una collettività, che deve curare, pena la sua perdita di legittimazione, che inevitabilmente si riflette sui ceti dirigenti del momento. In una democrazia rappresentativa, i leader politici che non sono capaci di declinare la funzione protettiva dello Stato verso i loro elettori sono fisiologicamente vocati alla sconfitta.

10. Il deficit di protezione non si esaurisce nella mancata protezione delle frontiere. C’è una dimensione sociale, di presenza dello Stato, con i suoi servizi, sul territorio. Ora, negli ultimi dieci anni, a causa soprattutto della grande crisi economica, questa presenza si è senza dubbio attenuata. E ciò soprattutto in periferia (veniamo da un decennio di centralismo). E questa ritirata dello Stato si è fatta sentire soprattutto nei luoghi in cui la società civile è più debole e l’economia meno vitale: evidentemente ciò ha riguardato soprattutto il Sud (riemerge oggi una nuova e drammatica questione meridionale). Volendo usare un’immagine un po’ rozza e semplicistica, ma forse non inutile, in tante parti del meridione in questi anni lo Stato ha chiuso ospedali, tribunali e altri uffici pubblici e ha portato migranti. Le fasce più deboli si sono viste equiparate agli ultimi arrivati e hanno addirittura percepito (forse erroneamente) di essere trattate peggio. Di qui la resurrezione dell’atavico assistenzialismo meridionale attorno allo slogan del reddito di cittadinanza.

11. Questi due dati – cambiamento e protezione – non avrebbero forse prodotto esiti così devastanti se alcune forze politiche non fossero state capaci di usare la comunicazione in maniera magistrale in occasione dell’ultima campagna elettorale. Da un lato c’è il fenomeno Salvini, capace di una comunicazione efficacissima, immediata e spregiudicata, che ha spazzato via con estrema facilità la stanca ripetizione di argomenti moralistici con cui i suoi avversari hanno tentato di contrastarlo. Dall’altro c’è un gruppo di professionisti della comunicazione – Casaleggio e Casalino – che ha imposto sul Movimento 5 Stelle una gestione centralizzata e sistematica della comunicazione.

Il combinato disposto di questi due attori ha prodotto qualcosa che potremmo forse definire una “dittatura della comunicazione”. A questa offensiva né il centro-sinistra, né l’ex grande comunicatore Berlusconi hanno saputo opporre strategie adeguate.

Fra l’altro sia i Cinquestelle sia la Lega hanno capitalizzato un vantaggio competitivo sui social media, alleati di fatto di una rete di odiatori professionali, produttori seriali di fake news (in questo la grande prova è stata il referendum del 4 dicembre 2016). Oggi i populismi hanno sui social media un vantaggio simile a quello che Berlusconi aveva con le sue televisioni negli anni Novanta.

12. A questi dati vorrei aggiungere quello della totale irrilevanza politica dei cattolici come soggetto collettivo (al singolare o al plurale: in questa sede poco importa). Siamo scomparsi dallo scacchiere politico, sia al momento della confezione delle liste, sia in quello della espressione del voto. Del resto una strategia manca del tutto: altre sono (magari legittimamente) le priorità di questo pontificato e del gruppo dirigente della Conferenza episcopale italiana. Ma è cosa forse ancor più grave lo stato di afasia e di dislessia in cui versa il cattolicesimo organizzato, che è semplicemente scomparso dai radar.

13. Certo, in tutto ciò hanno pesato le divisioni interne al Partito Democratico e più in generale al centro-sinistra, gli errori in serie di Renzi (ma anche dei suoi più feroci avversari), la fine della narrazione comunista e post-comunista sulla società italiana, ma mi pare che questi fenomeni abbiano un rilievo più sovrastrutturale che strutturale. Piuttosto mi pare rilevante la perdurante incapacità del PD di elaborare la sconfitta, di produrre un’analisi seria ed approfondita di essa e di attrezzarsi per la traversata del deserto munito dei necessari generi di conforto.

14. Quanto è grave la crisi della democrazia? Abbiamo anticorpi sufficienti per guardare alla fase attuale senza disperazione? A mio avviso una risposta può essere articolata su due livelli: non abbiamo – per ora – anticorpi sul piano della comunicazione (ad es. della guerra di parole lanciata da Matteo Salvini): qualsiasi reazione sul punto rischia di sembrare subalterna. In questo ambito c’è molto lavoro da fare (magari cercando di ricordare quello che di buono si è fatto in passato: si v. la mostra sul 18 aprile 1948 organizzata qualche settimana fa dall’Istituto “Luigi Sturzo”), ma credo che ci sia un ritardo colmabile solo col tempo.

Diversamente stanno le cose sul piano delle istituzioni. Anzitutto occorrerà verificare la tenuta dell’attuale coalizione di governo: si tratta di un passaggio transitorio, destinato a dissolversi con il ritorno dei due soci nei rispettivi ruoli (la Lega nel centro-destra e i M5S in solitario isolamento)? Oppure le due forze si scopriranno talmente simili da diventare partner stabili? Del resto chi avrebbe immaginato nel 1919 che fascisti e nazionalisti, che allora si randellavano ancora nelle strade, si sarebbero fusi nel 1923 e che il nazionalismo avrebbe fornito al confuso fascismo nascente l’ideologia statolatra per la quale tuttora lo ricordiamo e lo stigmatizziamo?

15. In ogni caso, anche ipotizzando la tenuta dell’attuale coalizione “giallo-verde”, possiamo contare – almeno in questa fase – su una serie corposa di anticorpi istituzionali. Appena Salvini & C. tenteranno di spostare la loro azione dalle parole ai fatti (cioè alle politiche e, più specificamente, alle leggi, ai regolamenti, agli atti amministrativi), appena smetteranno di emulare Mina (“parole, parole, parole, soltanto parole”), gli anticorpi istituzionali si attiveranno automaticamente.

Ciò accadrà dapprima in Parlamento o a fronte degli organi di garanzia politica (anzitutto il Presidente della Repubblica – come si è visto negli ultimi giorni di maggio sulla questione della nomina del ministro dell’Economia – ma anche i partner europei), poi davanti alla magistratura ordinaria e a quella costituzionale: lì gli atti incostituzionali o antieuropei troveranno resistenza e sanzione.

Ovviamente la garanzia ultima è la capacità di resistenza dei cittadini singoli e organizzati, anche se su questo profilo riemerge in tutta la sua enormità il problema della comunicazione. Ma il nostro sistema delle garanzie mi sembra per ora solido e ben strutturato, come abbiamo visto (talora anche con qualche eccesso) negli scorsi decenni.

Il che tuttavia non esclude che la fase attuale possa avere dei costi anche molto alti per la nostra convivenza organizzata e che dopo qualche eccesso di “buonismo” si corra il rischio di una società e di una politica più “cattive” e rancorose.