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Il dovere di rivolgere lo sguardo in avanti

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31 Gennaio 2018

di BEPPE ELIA
presidente nazionale del Meic

Mi è capitato qualche mese fa di partecipare ad una discussione in merito all’ultimo libro di Sergio Astori, Resilienza, che offre una interessante analisi della capacità delle persone e delle comunità di adattarsi positivamente a situazioni avverse, minacciose e generatrici di stress. E mi sono domandato se la società italiana (ma forse potremmo dire anche occidentale) non stia rivelandosi poco resiliente, incapace cioè di volgere in positivo le sfide che deve affrontare. Siamo certo in un tempo complicato, ma in altri momenti della nostra storia abbiamo vissuto difficoltà assai maggiori; pensiamo agli anni del dopoguerra, in cui la povertà era diffusa in larga parte dell’Italia, in cui le macerie materiali e spirituali erano il segno di una tragedia non ancora conclusa. Ma quello è stato un tempo di coraggio, di voglia di ricominciare, di partecipazione e di fiducia. Ed è impressionante quanto oggi sia proprio la fiducia a venir meno, e un pessimismo corrosivo attraversi i nostri pensieri e il nostro agire.

Abbiamo probabilmente vissuto alcuni decenni cullandoci nell’idea di un progresso sociale ed economico illimitato, all’interno di una struttura sociale certo imperfetta ma che consentiva di guardare al futuro senza angoscia. E il risveglio è stato impietoso: perché il mondo globale che pensavamo fosse un’ulteriore grande opportunità di crescita ha riversato nelle nostre città, nelle nostre vite, il carico di problemi irrisolti da cui credevamo di essere immuni. E allora la pace, che speravamo di aver conquistato una volta per sempre, è tornata ad essere messa in discussione, la democrazia, che era il segno distintivo delle nostre comunità, ha perso smalto e vitalità, i grandi progetti comunitari (a cominciare dalla costruzione dell’Europa) hanno subito vistosi rallentamenti e inversioni di rotta, lo spirito solidaristico che ha consentito di generare forme di sostegno a chi fa più fatica e possiede meno risorse, è oggi spesso penalizzato e considerato un valore desueto, cui possiamo fare a meno.

Mi par di scorgere due atteggiamenti, entrambi pericolosi per il nostro futuro. Il primo è l’autoripiegamento, lo sguardo rivolto ossessivamente a sé, ai propri interessi, al soddisfacimento dei propri bisogni, alla difesa di quel che si è conquistato (anche quando esso si riveli ingiusto alla luce di nuove esigenze sociali), alla ricerca di uno stare bene che ha sempre nuovi traguardi da raggiungere: Enzo Bianchi parla di una vera propria “egolatria”, in cui la dimensione relazionale e comunitaria non ha spazio, se non in funzione del proprio “ben essere”.

Il secondo è stato lucidamente evidenziato da Zygmunt Bauman, nell’ultimo suo libro Retrotopia, diffuso poco dopo la sua morte. Egli osserva che il mondo, dopo un secolo segnato dall’idea di un progresso inarrestabile, vive un tempo di disillusione verso il futuro, tornando a guardare il passato. Dice Bauman “tocca ora al futuro, deprecato perché inaffidabile e ingestibile, finire alla gogna ed essere contabilizzato come voce passiva , mentre il passato viene spostato fra i crediti e rivalutato, a torto o ragione, come spazio in cui la scelta è libera e le speranze non sono ancora screditate”.

Non appare quindi strano che, dove poco tempo fa l’integrazione europea sembrava un processo inarrestabile, riprendano vigore nazionalismi, sovranismi, localismi; che la partecipazione alla vita democratica sia oggi vista come una perdita di tempo sostituita dalla fiducia nell’azione taumaturgica di questo o quell’altro leader improvvisato; che il dialogo fra le culture, invece di essere la via attraverso cui educarci a vivere fra diversi e a costruire modelli di coesione sociale, sia sostituita dalla contrapposizione e dalla lotta allo straniero.

Fare oggi politica, come fare cultura, impone di misurarci con questo stato di cose; e bisogna avere il coraggio di dire ad esempio che l’accoglienza e il rispetto del povero sono costitutivi non solo del nostro essere cristiani ma del nostro essere uomini e donne, che vogliamo trasformare l’ordine economico e sociale che genera disuguaglianze, e che intendiamo l’impegno politico come esercizio di carità verso la comunità. Ma lo dobbiamo fare con lo sguardo rivolto in avanti, non indietro.

In questo tempo di elezioni, alcuni amici mi hanno espresso, attraverso dei documenti o dei messaggi, insieme all’innegabile scoramento per la pochezza del quadro politico, e l’emergere di un armamentario politico di basso profilo, il bisogno di non stare in silenzio; qualcuno si è fatto anche espressione dell’urgenza di intraprendere qualche iniziativa, memori di una tradizione di cattolicesimo democratico e di cattolicesimo sociale che ha lasciato un’importante eredità nel nostro Paese. Io temo sinceramente che il richiamo a questa tradizione abbia un sapore nostalgico, ove invece dovremmo avere l’umiltà e la creatività di ripensare in forme nuove l’azione politica.

Ci vuole tempo, e ci serve anche una strategia; l’amico Sandro Campanini mi ha detto: «Occorre investire in cultura, approfondimento, sensibilizzazione, appello al discernimento consapevole contro la banalizzazione e la superficialità». Il Meic non può farlo da solo, ma, con altri compagni di viaggio, può e deve attivare un processo nuovo.

(Editoriale del numero 3-4/2017 di Coscienza)