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A chi dedicherò questo tempo?

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A chi dedicherò questo Venerdì santo? Alla lunga fila dei crocifissi. Alle stagioni della primavera ferita, dell’estate trafitta, dell’inverno gelato. A chi è stato rubato il sorriso e ha visto il proprio sogno perdersi nel vento. Lo dedicherò a te mio Signore, che ti sei caricato del nostro dolore. Tu che nell’abbandono della croce hai condiviso il grido degli innocenti che continuiamo a seppellire e a dimenticare. Al tuo amore capace di squarciare la nebbia che odora di cemento. Lo dedicherò anche ai crocifissori, che non sentono la carne squarciata dai loro chiodi. A coloro che manovrano i fili del destino degli altri, come se fosse terra propria. Agli indifferenti che hanno perso il calore della pietà. Ai governanti che si tirano a sorte il vestito del povero, giocandolo a dadi. Lo dedicherò ancora a te, mio Signore, che hai invocato il perdono anche per loro, facendomi sentire sconfitto dinanzi a parole che scuotono un intero universo: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Ma molti lo sanno bene, e tu pure sai che lo sanno. Tuttavia mi sussurri di credere ancora nel perdono, e io non mi stancherò di costruire la mia casa sulle tue parole.

A chi dedicherò questo Sabato santo? A tutto ciò che si spegne. Lo dedicherò all’alba che cerca cristalli in cui riflettere la propria luce, e alle quattro suore trucidate nello Yemen, che nell’ultima ora hanno scritto: «Ci sono bombardamenti e sparatorie da ogni parte e abbiamo farina solo per oggi. Come faremo domani a sfamare i nostri poveri?». Questo sabato santo prende il loro volto, vivo, timido, generoso. Esso brilla nel silenzio notturno del nostro viaggio. Lo dedico ai disperati respinti dalla propria terra, resa deserta dalla malvagità del potere e dall’avidità dei pochi che ammassano e non spartiscono. Lo dedico alle folle che hanno incontrato un muro, e a coloro che hanno visto le loro barche sfasciarsi nel mare, mentre le onde mormoravano la loro ultima preghiera. Lo dedico agli innocenti travolti nell’attesa di una metropolitana, per andare al lavoro o tornare a casa, ad abbracciare i propri cari. Loro che si fidavano di chi non li ha saputi difendere, vittime sacrificali di un’Europa smarrita. Lo dedico al tuo lenzuolo, Signore, che ha raccolto con tenerezza il tuo corpo universa­le, abbracciando in esso la carne dei perduti.

A chi dedicherò questa domenica di Pasqua? Ai cercatori di speranza. A coloro che si ostinano nel credere che la vita non muore. Che è possibile cambiare le cose: “Ecco io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21,5). Una speranza che non aspetta, e che lotta “contro i dominatori del mondo tenebroso” (Ef 6,12). La speranza che apre i cieli, ma che comincia dalla terra, e che sa andare oltre i sepolcri, perché l’ultima parola non appartiene alla morte. La speranza di chi non accetta la sconfitta, riaccende la lampada spenta e la alimenta costruendo un futuro. Lo dedico agli operai della speranza, questo popolo silenzioso che forse non sa misurare il prodotto interno lordo, né si lascia abbagliare dai miraggi di un’esistenza mercanteggiata dagli annunci pubblicitari, ma che trova in ogni giorno la ragione per vivere. Lo dedico a te, Signore, che non hai voluto lasciarci con la morte, né che restassimo in lacrime dinanzi alla tua croce, ma che hai svuotato il sepolcro e posto al centro della nostra fede la tua risurrezione. E solo una cosa poteva produrre un tale miracolo: quello di un amore che neanche la morte ha avuto il potere di uccidere.

Con i più cari e sinceri auguri di una Santa Pasqua
Don Giovanni Tangorra, Assistente nazionale del MEIC