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INCONTRO AL RISORTO I tre "Giorni santi"

02 Aprile 2015

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Lo scopo dell'anno liturgico è di narrare-vivere (celebrandola) la storia della salvezza. Esso comprende momenti ordinari e momenti forti, dal significato particolare. È il caso della settimana santa, che i greci chiamano «la grande settimana», in cui si ripercorrono gli ultimi giorni della vita terrena del Cristo. Di essi "tre" sono i giorni per eccellenza, intorno ai quali ruota la soteriologia cristiana, e, come su un perno, l'intero ciclo liturgico. Sono i giorni del triduum paschale, «i giorni che stanno in mezzo fra il tempo e l'eternità», li chiamava Romano Guardini. La loro ripetitività annuale ha la funzione di tenere vivo il ricordo e di alimentare la fede della Chiesa pellegrina verso la speranza eterna. 

L'espressione Triduum sacrum risale già a sant'Ambrogio. Il rapporto tra il primo giorno e l'ultimo è quello che intercorre tra l'amarezza e la gioia, la notte e l'alba. Nelle riflessioni dei padri non mancano gli accenti poetici, come si addice a un mistero che, vissuto dal di dentro tocca anche le emozioni. Proclo, patriarca di Costantinopoli morto nel 446, ha lasciato scritto in una sua omelia 13: «Quali avvenimenti, dall'inizio del mondo si possono paragonare a quelli che la nostra fede oggi contempla? Quando lo Spirito ha concepito una grazia come quella che il Cristo ha donato al mondo? Quando il cuore l'ha sognata, l'intelligenza considerata? Quando la voce l'ha espressa? Quando l'occhio l'ha vista e l'orecchio udita?».
La liturgia ha saputo arricchire questi giorni di preghiere, riti e simboli evocativi, che hanno già una precisa fisionomia nel IV secolo. Li documenta il libro di viaggio della cristiana Egeria. Lungo i secoli vi sono stati vari adattamenti, e le due ultime riforme risalgono a Pio XII (1955) e a Paolo VI (1970). Il decreto delle Norme universali sull'anno liturgico e il calendario del 1969 riferisce i criteri: «Il triduo della passione e della risurrezione del Signore risplende al vertice dell'anno liturgico, poiché l'opera della redenzione umana e della perfetta glorificazione di Dio è stata compiuta da Cristo specialmente per mezzo del mistero pasquale, col quale, morendo, ha distrutto la nostra morte, e risorgendo, ci ha ridonato la vita» (n. 18).
Una modalità celebrativa è di considerare questi tre giorni come un unicum, che le nuove norme fanno iniziare il Giovedì santo con la messa in coena Domini. Significativamente, essa si conclude senza il congedo finale. L'assemblea si scioglie in un religioso silenzio, dandosi appuntamento alla seconda tappa, che è la liturgia del Venerdì santo, questa pure senza saluto finale, in attesa della Veglia che, al momento del Gloria, dà spazio a un "teologico fracasso" con cui la comunità esprime la volontà di annunciare la risurrezione. Nell'avvicinarsi di questi giorni, proviamo allora a evocare ciascuno di essi, lasciando a una considerazione successiva la riflessione sul mistero della risurrezione.

Giovedì santo: il giorno del servizio

Tutti gli evangelisti concordano nel fissare la morte di Gesù di venerdì. Alcuni azzardano la data, e cioè nell'anno 30 della nostra era, molto probabilmente il 7 aprile. Tenendo conto l'uso ebraico di calcolare le 24 ore da un tramonto all'altro, possiamo perciò affermare che di venerdì si è svolta tutta la passione. Dell'ultima cena abbiamo due versioni: dei sinottici, che la identificano con una cena pasquale, riportando l'istituzione dell'Eucaristia, e di Giovanni, che ne fa invece oggetto di molte rivelazioni, tra cui il comandamento nuovo dell'amore (Gv 13,34).

«L'intero Triduum paschale - scriveva Giovanni Paolo II - è come raccolto, anticipato, e "concentrato" per sempre nel dono eucaristico» (Ecclesia de Eucharistia 5). Il contenuto del suo memoriale è più esteso e orienta nelle tre direzioni del tempo, riepilogate dall'acclamazione liturgica: «Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell'attesa della tua venuta». L'Eucaristia è il cuore caldo della Chiesa, in essa, scrive il concilio, «è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra pasqua e nostro cibo» (PO 5). I padri amavano definirla banchetto messianico, spingendo le immagini sempre in una direzione futura, come l'opera del ricapitolatore che raccoglie tutti i semi della creazione.
Per comprendere tale centralità bisogna però anche disporsi a una visione più dinamica del sacramento. L'Eucaristia, infatti, non si esaurisce nel rito, ma ha un'azione plasmatrice che interpella l'esistenza e la storia. Facendosi cibo, Cristo non consegna qualcosa ma se stesso. È l'auto-offerta del servo. Ciò impedisce di farne un'isola rituale e rende appropriata la scelta della liturgia del Giovedì santo di inserire in questo giorno il Vangelo della «lavanda dei piedi» (Gv 13,1-20). Vari esegeti concordano persino nel ritenere l'intenzionalità giovannea di far coincidere questo brano con quello dell'istituzione dell'Eucaristia riportato dai sinottici. È una inculturazione teologica che mostra l'essere e l'agire del cristiano eucaristico.
Proviamo a immaginare la scena: Gesù, cinto di un grembiule, che fa il gesto riservato al servo di casa, incontra alcune resistenze e al termine dice parole molto simili al "fate questo in memoria di me": Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi. In questo modo, Giovanni riesce a far capire che mangiare e bere il Cristo eucaristico è servirsi gli uni gli altri. È singolare che Luca, pur senza riportare l'episodio della lavanda dei piedi, riferisca lo stesso insegnamento e proprio al termine dell'istituzione dell'Eucaristia: «Chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22-24-27).
Con la riforma di Pio XII, il rito della lavanda dei piedi, prima riservato alla chiesa cattedrale, è stato esteso a tutte le parrocchie, permettendo così a ogni comunità cristiana di lasciarsi interrogare da esso. Dopo l'orazione finale si compie la "reposizione del santissimo sacramento" in un altare diverso. Una volta lo si chiamava "sepolcro" e il rito era strutturato in modo da imitare una processione funebre in vista della sepoltura del Cristo. Tuttavia, poiché Cristo nell'Eucaristia non è morto, ma vivo, oggi gli si dà un diverso significato, quello di accompagnare Gesù che disse: «Non siete stati capaci di vegliare un'ora sola con me. Vegliate e pregate» (Mt 26,40). Il protrarsi notturno dell'adorazione ha questo scopo.

Venerdì santo: il giorno dell'amore

Egeria riporta l'usanza dei cristiani di recarsi nei luoghi della passione accompagnando l'itinerarium con canti e preghiere (la prima via crucis). Antica è pure la tradizione di dedicare questo giorno al digiuno, che è duplice: alimentare ed eucaristico, in quanto non si celebra messa. Esso, però, non ha un significato penitenziale, come nella Quaresima, ma stimola l'attesa. La Sacrosanctum concilium lo denomina infatti «digiuno pasquale» e consiglia di protrarlo «anche al sabato santo, in modo da giungere così, con animo sollevato e aperto, ai gaudi della domenica di risurrezione» (n. 110). I riti che caratterizzano la liturgia di questo giorno sono: l'ascolto della Parola (comprendente una "preghiera universale"), la venerazione della croce e la comunione.
La liturgia del Venerdì santo propone la passione secondo Giovanni. A differenza degli altri evangelisti, egli è più discreto nel raccontare i particolari della sofferenza. La croce, per lui, non è tanto "l'ora" del dolore o dell'umiliazione, ma della rivelazione di un amore. Tutto va in questa direzione. Per amore, il Padre ha mandato il Figlio e per amore questi si è fatto solidale, crocifiggendo nella sua carne il peccato del mondo. Ai piedi della croce si scopre l'amico, colui che dice Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici (15,13), ma prende forma anche il comandamento nuovo, la stella dell'etica cristiana, che è di amare come lui: come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri (13,34).
Punto di arrivo è Gv 19,34, quando uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua. Difficile trovare un padre che non sia colpito da questa immagine. I più vi hanno visto la nascita della Chiesa, come san Giovanni Crisostomo, che la paragona alla creazione di Eva: «Come allora il Signore prese dal fianco e formò la donna, così ci diede sangue e acqua dal suo fianco e formò la Chiesa». Poiché la parte più vicina al fianco è il cuore, guardando al cuore di Cristo la Chiesa comprende quanto la sua essenza stia nell'amore. Per Hans Hurs von Balthasar «l'apertura del cuore sta a indicare il dono, per l'uso pubblico, di quanto di più personale e intimo Gesù ha; lo spazio aperto, svuotato, accessibile a tutti».
Parlare della croce non è un esercizio debole e per questo non sorprendono le molte resistenze. Giovanni arriva a dire che è il Padre a offrire suo Figlio. Lo fa però indicando ancora nell'amore l'origine di tutto, Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito (3,16). Gesù poteva incarnarsi, morire e salvarci in mille modi, anche per vecchiaia o attraverso operazioni strabilianti, eppure ha scelto di essere l'uomo dei dolori, che, come scrive Jürgen Moltmann, «ci rivela la sconfinata compassione di Dio e la sua infinita sofferenza come sofferenza del suo amore. Nel suo amore egli soffre con le sue creature e per le sue creature, perché egli vuole la loro redenzione nella libertà». Di un Cristo così ci si può solo innamorare.
La croce appartiene al nucleo del cherigma apostolico e per quanto possa risultare scomoda e folle, non saremmo cristiani se rinunciassimo ad annunciarla. Essa non porta però a impostare una mistica dei patimenti e non fa del crocifisso un talismano, o un simulacro muto. Cristo muore per un'alleanza. Di conseguenza, la sua croce proclama a gran voce che l'amore è l'unica forza in grado di sconfiggere il male. Chi venera il Crocifisso, condivide inoltre una posizione: quella di Cristo che sta dalla parte degli ultimi, degli sconfitti, degli umiliati. La croce è speranza per gli uni, e, al tempo stesso, giudizio severo dell'onnipotente arroganza dei crocifissori. Il venerdì santo di Gesù è il venerdì santo del mondo.

Sabato santo: il giorno del silenzio

Nel punto in cui la vita finisce, c'è come una pioggia salata che scende sul mondo. Mani taciturne depongono il corpo morto del Cristo nella tomba, e sigillano il Logos con una pietra, riducendolo al silenzio. La Chiesa caratterizza questo giorno come l'unico dell'anno senza nessun tipo di celebrazione liturgica. Gli altari sono spogli e senza ornamenti, si spoglia anche quello della reposizione, le candele sono spente, le campane sono mute. Tutto tace.
Il Giovedì santo potevamo toccarlo nei segni del pane e del vino e il Venerdì santo si poteva vederlo innalzato sulla croce, udendo le sue ultime parole. In questo Sabato tutto è vuoto, anche la croce. Una pietra tombale sembra aver chiuso definitivamente la questione. La sepoltura dice chenosi totale. Un conto è morire e un conto è essere morti per davvero. È l'ultima tappa della discesa. Il simbolo degli Apostoli gli ha dato tanto importanza da farne un articolo di fede: "morì, fu sepolto, discese agli inferi". Non è molto chiaro cosa si intendesse con l'ultima espressione, ma nel linguaggio di allora gli inferi erano le parti più basse della terra, lo sheol, il regno dei morti. La risalita comincia lì dove più profondo è l'abisso della morte.
Per san Paolo scendere nell'abisso, è far risalire Cristo dai morti (Rom 10,7). Si tratta quindi di una atto che vede il Cristo annunciare una salvezza anche per i morti (cf. 1Pt 3,9). È una risalita cosmica che ha inizio dai frammenti. Per questo, più che produrre lamenti sul corpo morto, i padri orientali hanno parlato del sepolcro già in termini di risurrezione. Il citato Proclo non esita a paragonarlo a un letto nuziale, e la discesa agli inferi a un viaggio di nozze: «Mai l'inferno aveva tremato asportando la sua preda, mai la terra era stata ornata da una tomba che riparava la vita e, più che una tomba, da un letto nuziale. L'uomo che vi era seppellito non era soggetto alla corru-zione: discendeva sotto terra per celebrare le nozze».
Il Sabato santo è pure il giorno che ci permette di parlare della morte in modo nuovo. Cristo non libera dalla morte biologica, ma ne rivoluziona il senso, privandola del suo aspetto ostile. «Da allora - scrive Benedetto XVI -, la morte non è più la stessa: è stata privata, per così dire, del suo "veleno". L'amore di Dio, operante in Gesù, ha dato infatti un senso nuovo all'intera esistenza dell'uomo, e così ne ha trasformato anche il morire [...]. La morte non mostra più il ghigno beffardo di una nemica ma, come scrive san Francesco nel Cantico delle creature, il volto amico di una "sorella", per la quale si può anche benedire il Signore: "Laudato si', mi' Signore, per sora nostra morte corporale"».
Percorrendo il silenzio di questa oscurità mortale la comunità giunge alla notte più importante di tutte. Siamo ora pronti a celebrare la madre di tutte le notti: la veglia pasquale. La luce di Dio splende nella notte. O notte beata, diremo nel canto dell'exultet. Si accenderà un fuoco e da esso un cero, portandolo in processione in una chiesa buia. È il simbolo della fede che accende la notte. O notte beata! In essa tu ci hai creato, in essa ti sei incarnato, in essa ci hai redento. O notte beata della no¬stra liberazione. Attraverseremo il mare dell'amarezza e i nostri piedi saranno asciutti. Notte beata in cui i tessuti dell'universo verranno ricomposti. O notte beata! E beati color che sapranno cantare il loro canto d'amore proprio nella notte.

DON GIOVANNI TANGORRA