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Un patto tra le generazioni, per speranza e per giustizia

18 Giugno 2020

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Intervista a REMO BODEI
filosofo (1938-2019)
di MIMMO SACCO
giornalista, già redattore del Tg1 

Professore, noi tutti sappiamo, per esperienza e constatazione, che il rapporto tra generazioni è dialettico e spesso conflittuale. Ma la crisi economica non ha esasperato le distanze tra anziani e giovani, o se vuole, tra genitori e figli?

«Il rapporto tra le generazioni muta nel tempo e, quindi, è più o meno conflittuale. Ci sono periodi teatro di scontri ed altri in cui c'è spirito di collaborazione. Nella fase economica attuale si sono prodotti effetti diversi: intanto si è verificata una sorta di "guerra ideologica" tra giovani e vecchi, una polemica a base di "rottamazioni" e di accuse alle generazioni più anziane di rubare il lavoro ai giovani. Dall'altro lato però la famiglia si è sempre più rivelata un rifugio accogliente per i giovani che non trovano occupazione lavorativa».

Si ha la sensazione che la differenza generazionale porti quasi a vivere in mondi chiusi. In che modo ci si può adoperare per incrinare o abbattere, se possibile, queste barriere?

«Le nostre società si evolvono rapidamente, generando esperienze di diversa velocità tra appartenenti a generazioni abituate, appunto, a ritmi differenti. I giovani che non hanno un futuro programmabile condividono pertanto tra loro esperienze estranee alle generazioni mature o anziane. Per incrinare, se non proprio abbattere, queste barriere, in certa misura fisiologiche, bisognerebbe coinvolgere tutti in progetti comuni, costruire una speranza di cambiamento in meglio, far crescere nella società maggiore equità e giustizia. Soprattutto, occorrerebbe  produrre un "travaso" di ricchezza e di opportunità dalle persone più anziane a quelle più giovani, diffondendo un sentimento di generosità sociale e non solo familiare».

Ecco, Professore, mi dà proprio l'aggancio della domanda successiva. Ritengo sia giusto chiedere agli adulti di sforzarsi di comprendere la realtà giovanile (molto spesso di non facile lettura). Ma anche ai giovani, provvisti di freschezza e di elasticità mentale, non andrebbe chiesto di venire incontro alle esigenze del complesso mondo degli anziani, provando, fra l'altro, a valorizzare le loro esperienze?

«Certamente i giovani dovrebbero fare questo sforzo. Soltanto che in loro è venuto meno ‒ e non si sa bene di chi sia la colpa ‒ il senso della storia e il senso della continuità tra le generazioni; inoltre, sembrano bloccati nel loro slancio verso il futuro, cosicché tendono a vivere quasi esclusivamente nel presente, cercando di cogliere, senza troppo distinguere, ogni occasione e/o esperienza che loro si offre. A volte sembrano bloccati nella capacità (o volontà) di "fare un passo avanti". Certo, anche le generazioni più anziane non possono, per così dire, "stare a guardare"; a loro è richiesto un impegno per riannodare questi rapporti diventati laschi. Del resto, in una società come la nostra, dove si tende sempre più a vivere sulla base di interessi immediati, non si va da nessuna parte, se non si migliorano i rapporti fra le generazioni».

La tendenza al giovanilismo da parte di molti adulti, il voler essere considerati padri-fratelli o padri-amici per avvicinarsi alle nuove generazioni non rischia di confondere i ruoli?

«Certamente! In effetti la figura paterna è declinata nel momento in cui ha iniziato a scemare l'autorità che le derivava anche dall'essere l'unico sostegno economico della famiglia, e soprattutto l'unico mediatore tra il mondo domestico e quello esterno (società, cultura, politica). I profondi mutamenti socio-culturali degli ultimi decenni (numero crescente di madri impegnate nel lavoro, scolarizzazione estesa, opportunità accresciuta per ragazzi e giovani d'incontri tra pari, diffusione dei mezzi di comunicazione di massa sino ai recenti e pervasivi social network)  hanno inciso largamente sulla stessa funzione di socializzazione primaria dei minori, da sempre affidata alla responsabilità della famiglia. Entro questo quadro trasformativo in continua evoluzione, in particolare l'autorità verticale, tradizionalmente interpretata dal padre, ha finito con l'essere sempre più sostituita dall'autorità orizzontale, rappresentata dai coetanei. Di conseguenza, per molti adolescenti e giovani i modelli di comportamento non recano più l'impronta della figura paterna».

La famiglia - come Lei ha osservato di recente - è ormai diventata più "porosa" e permeabile ai mutamenti. Il termine stesso "famiglia" tende a non avere più un senso univoco: quali le conseguenze per la nostra società?

«Ci sono ormai molti tipi di famiglie. C'è quella tradizionale, basata sul matrimonio (che nel passato sovente si dilatava nel senso di una famiglia allargata in cui convivevano più generazioni: nonni, padri, figli, nipoti). Ad essa, per le ragioni a tutti note e fondamentalmente legate all'evoluzione della società, dei processi di urbanizzazione e di crescente industrializzazione, si è andata via via sostituendo la famiglia cosiddetta nucleare (padre, madre, figlio/figli), sino a giungere ai più recenti modelli familiari: oggi ci sono le famiglie di fatto, le famiglie omosessuali, quelle "arcobaleno". Tutte realtà e fenomeni nuovi, rivelatori dei profondi mutamenti socio-culturali in corso, meritevoli di essere conosciuti e studiati con molta attenzione».

In quest'ottica crede sia opportuno spendere ancora (lo ha già accennato) una parola sul "declino della figura paterna"? Ne parlano molto sociologi, filosofi, psicologi. Quali le conseguenze per l'istituto familiare?

«Le conseguenze sono che la comunicazione tra generazioni diventa più difficile e, soprattutto, c'è da constatare il fatto rilevante, già ricordato sopra: un numero crescente di adolescenti e giovani guarda fuori della famiglia (gruppo dei pari, personaggi famosi della musica, dello sport, dello spettacolo) per avere modelli di riferimento. La cosa può assumere vari significati e implicanze. Non sempre positivi. Vi è infatti il rischio di infatuazioni da processi mimetici unicamente emotivi, privi quindi di un minimo di discernimento. Rispetto ad epoche passate (penso all'età dei totalitarismi del Novecento), per le nuove generazioni dei nostri tempi sembra di gran lunga meno attraente il richiamo a modelli rappresentati da figure della politica. Questo mi fa dire che i giovani di oggi, pur con tutti i loro limiti e fragilità, sono però poco permeabili ai richiami di eventuali ideologie anti-democratiche. La cosa, ovviamente, va registrata con soddisfazione». 

Soffermandoci ancora sui giovani, il ruolo di supplenza economico-finanziaria, in famiglia, da parte di nonni e genitori verso i figli, che conseguenze può avere nel loro processo di maturazione e di autonomia?

«Dipende. Può avere un valore negativo, nel senso che li deresponsabilizza, inducendoli a vivere "di rendita", semi-rassegnati, senza una propria attività lavorativa, certi, comunque, di potere fruire, per periodi più o meno lunghi, dei frutti del lavoro altrui. Dall'altro lato può far scattare, invece, la molla dell'orgoglio, della ribellione a forme di rassegnazione, mobilitando quindi la volontà di rischiare, di misurarsi con le varie opportunità che si dovessero presentare, magari di cimentarsi in qualche attività gestita in proprio. Del resto, senza la decisione di mettersi in gioco in prima persona, non si potrà mai sperare di pervenire a una vera autonomia da adulti». 

Professore, possiamo dire che oggi suona amara l'affermazione del filosofo tedesco George Hans Gadamer (da me intervistato molti anni fa per il Tg1): «I giovani sono la speranza del domani»?

«Si tratta di un'affermazione che oggi sembra rivestire il sapore di ironia tragica. A restare sul piano filosofico, ben prima di Gadamer, già Aristotele (dunque, più di 1300 anni fa) sosteneva che i giovani sono caratterizzati dalla speranza, dallo sguardo rivolto al futuro. Ciò è stato vero quasi fino ai nostri giorni. Ma attualmente, perlomeno in Occidente, in un numero non indifferente di ragazzi e ragazze si registrano, purtroppo, diffusi stati d'animo e sentimenti negativi, come indifferenza, rassegnazione, disagi interiori profondi. Sulle loro cause le interpretazioni si sprecano. Di sicuro vi incidono la situazione generale d'incertezza sul futuro e l'insoddisfazione per il modello di società che si è venuta edificando. Fortunatamente, anche da noi, sono moltissimi i giovani e le giovani che, pur consapevoli delle difficoltà in atto, si mobilitano in vari modi per favorire un cambiamento. Quest'attitudine alla mobilitazione per un futuro migliore, per condizioni di vita più rispettose dei diritti di tutti e di ciascuno è presente e viva nelle nuove generazioni di parecchie nazioni emergenti (su tutte, Cina e India): è la molla di un sentimento positivo, la speranza, che dà linfa al desiderio di cambiare in meglio». 

Avviandoci alla conclusione, diamo un attimo uno sguardo d'insieme alla situazione sociale. Lei vi ha appena accennato, riferendosi ai grandi Paesi emergenti. Si ha l'impressione che le nostre società occidentali (compresa, ovviamente, l'America, che Lei conosce molto bene), così come sono strutturate e con la diffusa predominanza di soggettività autoreferenziali, d'indubbie propensioni individualistiche, rendano difficile riannodare i fili di un rapporto tra anziani e giovani. Condivide questa osservazione?

«Senz'altro! Nel nostro tipo di società, lo sviluppo dell'economia di mercato e la persistente crisi economico-finanziaria in cui ci troviamo (dura dal 2008) sembra spingere ciascuno a cercare di salvarsi isolatamente. In tal modo si rischia di erodere gli stessi vincoli di solidarietà intergenerazionali. Si tratta di un processo, per certi versi, accentuato anche dall'indubbio declino (o comunque dalle trasformazioni in senso riduttivo) delle stesse politiche di welfare. Sta prevalendo infatti una logica di puro mercato, di neoliberismo duro in un contesto globalizzato, i cui effetti sul destino dei singoli individui si manifestano in tutta la loro drammaticità, a fronte soprattutto di eventi traumatici come può essere la perdita (purtroppo frequente in tempi di stagnazione socio-economica) del posto di lavoro. Tramontate le forme storiche della solidarietà di classe, aumenta, con il senso d'insicurezza e abbandono, anche la consapevolezza di dover cercare da soli la soluzione ai propri problemi, data l'insufficienza delle stesse forme di provvidenza sociale. Naturalmente, in una società d'individui, dove ciascuno avverte sempre più il peso della competizione e la sollecitazione a doversela cavare da sé, è inevitabile che ne scapitino anche i rapporti fra le generazioni, con non improbabili forme di risentimento dei giovani verso gli anziani, ritenuti colpevoli, fra l'altro, di ingiusta distribuzione delle risorse disponibili».  

Professore, nel concludere questa nostra conversazione credo opportuno richiamare esplicitamente il suo saggio del 2015 Generazioni. Età della vita, età delle cose. Lei suggerisce chiaramente l'opportunità, o meglio ancora, il bisogno di un patto intergenerazionale; ma su quali basi può essere possibile una ritrovata fiducia, direi una sperabile ritrovata fiducia?

«L'esigenza di una patto generazionale è sentita perché è ineludibile. Non si può andare avanti così, con il sacrificio di intere generazioni e la desertificazione del futuro. Tuttavia, quali mezzi si debbano cercare per procedere al meglio, non è ancora chiaro. Certo, si può fare appello alla generosità dei più anziani che hanno ricevuto dalla storia maggior sicurezza, con il posto fisso di lavoro o pensioni relativamente più cospicue di quelle che toccheranno ai giovani di oggi. Ma questo invito morale non basta. Sarebbe necessario un piano politico di investimenti, di spostamenti di risorse in grado di riorganizzare il sistema sociale, secondo un criterio di effettiva equità. Alla base di tutto vi è, dunque, un problema di giustizia sociale. Se persistono le attuali situazioni di squilibrio e iniquità, non soltanto tra ricchi e poveri, ma anche tra le generazioni è evidente che, su quest'ultimo fronte, i rapporti non potranno essere migliorati in modo convincente e duraturo».

(intervista pubblicata su Coscienza 1-2/2020)