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Ludovico Galleni, tra cultura politica e stile ecclesiale

29 Novembre 2017

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di STEFANO CECCANTI

Il mio primo ricordo di Ludovico fu la sua collaborazione al nostro giornalino studentesco liceale "Il Confronto" in cui curava le schede, didattiche e ben meditate, sulle personalità della storia del movimento cattolico. Per questo ho utilizzato come primi termini della mia testimonianza "cultura politica".

La collaborazione nacque a partire dalla comune appartenenza al circolo Jacques Maritain, legato nazionalmente alla Lega Democratica di Scoppola e Ardigò, dove alcuni di noi studenti fummo accolti, dandoci una prospettiva culturale impagabile. Avevamo iniziato con le liste alle elezioni studentesche, ma quel livello non ci bastava né era sufficiente l'impegno ecclesiale. Ci rendevamo conto che c'era bisogno di una cultura politica solida. Niente si inventa mai da zero, molti prima di noi hanno vissuto interrogativi analoghi. Non bisogna essere prigionieri delle soluzioni da loro trovate, ma certo non si possono ignorare. E' la nota metafora dei nani sulle spalle dei giganti. Esisteva un modo di dar ragione delle proprie idee collaborando con altri in modo positivo? Questa era la domanda di fondo negli anni di piombo, in cui si sentiva il bisogno di ritornare all'Assemblea Costituente e al ruolo giocato in particolare dai cattolici democratici. Questo consentiva di sostenere la stagione della solidarietà nazionale come periodo fecondo in cui tutti potessero finalmente riconoscersi nelle grandi scelte di quel periodo, anche di quelle che avevano diviso il paese (l'alleanza atlantica, la scelta europeista). Quei ritratti di Ludovico avevano lo stesso senso del libro chiave di quella stagione, quello di Pietro Scoppola su "La proposta politica di De Gasperi". Fin qui credo di poter parlare anche a nome di altri, che possono ben integrare questa mia riflessione, a cominciare da Andrea Bonaccorsi.

Il secondo ricordo è in realtà una somma di passaggi molto personali che si riferiscono allo stile ecclesiale. Due decisamente più delicati, altri meno. Ludovico ci aveva parlato della sua esperienza nella Fuci, come occasione di apertura anche sovranazionale, che lo aveva condotto al personalismo di Teilhard de Chardin e a letture di vario tipo della rete studentesca internazionale di pax Romana e della sua sofferenza per l'assenza di un gruppo locale, in seguito ai problemi legati alle fratture del referendum sul divorzio nel 1974.

Forse anche per questo mi venne l'idea, subito dopo la maturità, di andare alle settimane di Camaldoli, anche perché avevo conosciuto attraverso la Lega Democratica, alcuni di coloro che componevano la Presidenza nazionale della Fuci, in particolar modo Giorgio Tonini e Michele Nicoletti, entrambi in questo momento parlamentari della Repubblica. Andai a chiedergli prima cosa ne pensasse. Ricevetti una lezione di stile ecclesiale che potrei definire, credo, come tipicamente montiniano. Il problema delle scelte - credo di aver capito da lui - non è tanto quello dell'immediato, ma del loro significato e della loro comprensibilità sul tempo medio-lungo. Quando si fanno scelte individuali non facili da spiegare non bisogna mai né viverle né presentarle come scelte di rottura o provocatorie, come si può essere tentati specie a quell'età con spirito ribellistico, ma con la preoccupazione che possano essere capite almeno a una certa distanza di tempo, presentandole quindi come le scelte che in coscienza si ritengano più valide. Alcuni anni dopo mi fu detta una cosa analoga quando chiesi al professor Maurice Duverger come si erano giustificati il distacco progressivo dal regime di Vichy, che quasi tutti i cattolici avevano visto positivamente in reazione alla Terza Repubblica laicista, visto che la dottrina pre-conciliare era ferma all'equidistanza tra le varie forme di Stato e teorizzava l'obbedienza al potere che apparisse come legittimo. Duverger mi rispose che il padre domenicano Maydieu, leader spirituale della Resistenza a Bordeaux, direttore de "La Vie intellectuelle", aveva loro spiegato che si poteva e si doveva difendere una posizione, in questo caso l'opzione preferenziale per una democrazia pluralista, se si riteneva in coscienza che dopo una generazione, cioè dopo un'effettiva positiva sperimentazione, essa potesse divenire non la bandiera di una minoranza, ma la posizione ufficiale. Duverger aggiungeva che in effetti da lì alla Gaudium et Spes era effettivamente passata una generazione e almeno in quel caso la scelta di coscienza aveva funzionato. Al di là dell'analogia più o meno forte con situazioni ben più tragiche e importanti, restava però una lezione di stile, che certo avvicinava Ludovico a Maydieu e più in generale a quel modo tipicamente montiniano di combinare innovazione e moderazione.

Qualche mese dopo, nel maggio 1981, anche in seguito a una bella esperienza internazionale che mi era stata offerta dalla Fuci proprio nell'ambito di Pax Romana il mese precedente (un'indimenticabile sessione a Strasburgo tra francesi seguaci di Delors che si preparavano all'alternanza presidenziale, spagnoli appena scampati al fallito colpo di Stato di Tejero e impegnati a partire dalla Catalogna per costruire la nuova democrazia nel complesso del loro Paese, portoghesi ancora galvanizzati dall'avere espresso una Presidente del Consiglio dopo la dittatura e tutti preoccupati per la situazione in Polonia con lo stato d'assedio per la sorte del leader locale Mazowiecky che sarebbe diventato il primo Presidente del Consiglio non comunista pochi mesi prima della caduta del Muro) la Presidenza della Fuci mi propose si collaborare facendo su e giù con Roma. Anche lì mi ripeté il suo parere positivo condizionato, con gli stessi inviti alla moderazione nello stile che mi aveva proposto quasi un anno prima. Penso tutto sommato di averli seguiti abbastanza bene se poi il passaggio successivo, quello più delicato, si concluse bene, cosa non scontata. Mi riferisco alla mia elezione e nomina alla Presidenza nazionale della Fuci a metà 1985. Mentre la collaborazione alla Presidenza rientrava semplicemente nelle dinamiche interne, per la Presidenza la procedura comportava allora, ma anche oggi, anche la nomina della Conferenza Episcopale, che a sua volta avveniva previa lettera di presentazione del vescovo diocesano. Vista la situazione essa non poteva essere data per scontata. Sulla base dello stile raccomandatomi da Ludovico feci la cosa più semplice e trasparente, che fin qui, per delicatezza, non ho mai spiegato in pubblico, ma non vedo controindicazioni a farlo. Chiesi un colloquio a mons. Antonio Bianchin, allora assistente dell'Azione Cattolica, che non vedevo da anni, e gli chiesi se fosse opportuno andare a parlare con l'arcivescovo. Mi rendevo conto che ci potevano essere ragioni di dissenso, nel qual caso, ovviamente, non si sarebbe proceduto. Lui mi rispose che avrebbe fatto da tramite e che non poteva dire con certezza cosa l'arcivescovo avrebbe risposto, ma che la richiesta era semplicemente di fare una lettera di presentazione di una persona, non c'entravano altri giudizi su scelte pastorali diocesane, su valutazione di associazioni o altro. I problemi, mi spiegò, c'erano stati nel 1974 perché l'arcivescovo gli aveva spiegato dal suo punto di vista che era difficile motivare la libertà di coscienza da parte di un'associazione riconosciuta e promossa dai vescovi quando questi ultimi avevano espresso una posizione chiara sulla materia, al netto della libertà di coscienza dei singoli. Erano i classici problemi di cosa si dovesse intendere per ‘mandato', ma si riferiva a un altro periodo e comunque non incideva sulla questione. L'arcivescovo fu molto cordiale, ricostruì le questioni in quel modo, mi disse che per questo manteneva una riserva per le scelte pastorali locali, e mi fece i migliori auguri di buon lavoro.

Non so se lo scenario sarebbe stato diverso se non avessi cercato di seguire quei consigli di stile.
Obiettivamente credo di no. Negli ultimi anni abbiamo soprattutto corrisposto per mail, specie dopo un'udienza privata dell'attuale papa a miei amici personalisti francesi che mi avevano portato con loro perché Ludovico riteneva che nel filone personalista si trovassero ancora risorse per rispondere alle crisi, come proprio il papa aveva affermato in quell'incontro citando Mounier e Ricoeur. Me lo scrisse anche nell'ultima mail ricevuta dopo il cattivo esito del referendum inglese. Di persona l'ho visto in quello stesso periodo alla Domus Mariae: lui era lì per il Miec, io per accompagnare Luis Maria Goicoechea, assistente internazionale dei laureati di Pax Romana, che era stato nostro assistente latinoamericano degli studenti, al Consiglio centrale della Fuci. Anche lì ci fu occasione di parlare del contesto globale, delle sfide per la società e della Chiesa.

Cultura politica e stile ecclesiale che ho trattato come separati erano in realtà in lui profondamente connessi, sia pure nella loro distinzione.

(Pisa, 25 novembre 2017)