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Ius culturae: l'Italia è di chi la vive

19 Ottobre 2017

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di MAURIZIO AMBROSINI

La proposta di riforma della legge sulla cittadinanza per i minori di origine straniera ha un’elevata portata simbolica: si tratta di decidere chi vogliamo come concittadini, se siamo disposti ad accettare come italiani dei giovani con la pelle scura, gli occhi a mandorla, il velo o il turbante.

La realtà sociale del paese però è già questa, con 1,1 milioni di minori di origine immigrata, più altri ormai maggiorenni dopo essere passati attraverso le nostre scuole.  La visione ottocentesca della nazione del Manzoni, come «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor» (Marzo 1821) non è da relegare in soffitta, ma è di certo destinata a essere ridefinita e negoziata in termini nuovi. Vale la pena di ricordare che con la legge attuale, adottata nel 1992, noi riconosciamo automaticamente come italiani i lontani discendenti di antichi emigranti che non hanno mai visto il nostro paese, non ne conoscono la lingua, la storia e le istituzioni, ma hanno la fortuna di avere qualche goccia di sangue italiano nelle vene. La legge attuale  è l’espressione di una visione della nazione come comunità etnica, basata su legami di discendenza e di sangue, o al più di matrimonio. Suona curioso che l’automatismo  del diritto di sangue appaia pacifico, mentre l’attribuzione della cittadinanza a giovani cresciuti in Italia, ma non appartenenti alla nazione “etnica” italiana, sembri ad alcuni una concessione troppo generosa.

Riconoscere la cittadinanza a chi si forma qui, frequenta per anni le stesse scuole degli altri ragazzi, imparando lingua, letteratura, storia del nostro paese avrebbe un chiaro significato culturale e simbolico: direbbe che l’Italia è di quanti la vivono, la conoscono e la costruiscono ogni giorno, indipendentemente dalle loro origini. Sarebbe anche un riconoscimento del ruolo della scuola, come istituzione centrale per la formazione dei cittadini. Ed eventualmente questo ruolo potrebbe essere incentivato, rafforzando il rilancio dell’educazione civica di cui da tempo si parla: ovviamente per tutti gli studenti, non solo per quelli di origine straniera. Di nuovo, è strano che ci si preoccupi di verificare la conoscenza di istituzioni e norme costituzionali da parte dei giovani provenienti da famiglie immigrate, e si dia invece per scontato che quanti crescono in famiglie etnicamente italiane le conoscano e vi aderiscano per diritto naturale. Nello stesso senso andrebbe anche un effettivo potenziamento del servizio civile “universale” voluto dalla riforma del Terzo Settore: un tempo per l’esercizio pratico della cittadinanza come servizio alla collettività, nelle moltissime forme possibili, accompagnato da un’adeguata formazione anche civica.

Non si vede per contro quali vantaggi porti ad una società nazionale demograficamente esangue la prolungata esclusione di un oltre un milione di giovani. Non è un incentivo ad amare l’Italia e a sentirla come la propria patria.

(Maurizio Ambrosini è professore ordinario di Sociologia del territorio all'Università di Milano e consigliere nazionale del Meic)