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SEI PAROLE PER IL DOMANI Lo sviluppo dal quale ripartire

30 Giugno 2020

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di PAOLO PILERI
docente di pianificazione territoriale ambientale / Politecnico di Milano

Nei giorni di infelice isolamento ho riletto alcune pagine di libri che ho a cuore. Un raro beneficio di questo tempo feroce. Chi, prima di noi, ha vissuto crisi, guerre, prigionie ce le ha raccontate per dirci "come uscirne". Già, non basta uscirne, ma bisogna capire come. E il passaggio non è scontato. Antonio Cederna sosteneva che «non sarà mai possibile cambiare rotta se non siamo disposti a riconoscere fino in fondo gli errori commessi» (1975). Per il giovane Giaime Pintor «Questa prova [la grave malattia del fascismo] può essere il principio di un risorgimento soltanto se si ha il coraggio di accettarla come impulso a una rigenerazione totale» (1943). Norberto Bobbio paragonava la Resistenza a una «dura scuola di verità: non solo un atto di coraggio morale ma anche di chiarezza intellettuale» (1955). Tre testimonianze che spiegano con strabuzzante chiarezza che non si esce dalle crisi stando con le mani in mano o cantando dai balconi, a meno di non voler tornare a schiantarsi al prossimo giro. Non si esce dalle crisi semplicemente perché finiscono e noi ci ritroviamo cambiati. Per uscirne bene dobbiamo passare attraverso un processo collettivo di presa di coscienza di cosa si vuol fare dopo. Serve il coraggio di spezzare i fili con il modello che ci ha ficcato in questo enorme guaio. Ha senso subire i cambiamenti o è meglio deciderli? Ha senso non dubitare di una task force composta da una maggioranza che arriva dallo stesso modello di sviluppo che non ha fatto nulla per evitare lo schianto? È come chiedere all'incendiario di spegnere il fuoco.

In questo tempo di crisi, chi guida il Paese e i territori dovrebbe concettualizzare i problemi che ci hanno portato qui e riprendere slancio per dettare l'agenda all'economia e non il viceversa. Mai come in queste ore siamo disposti a capire e accettare cambiamenti di rotta improponibili qualche mese fa. Se però ci dicono di non temere perché presto si ripartirà... non ci mettiamo a pensare. Se ci convinciamo che basta una mascherina per non ricadere nel medesimo modello sociale ed economico di un attimo prima... La politica deve chiarirsi e chiarire e indicare con più coraggio una strada diversa, una filosofia sociale diversa. Se non ce la propone è anche perché poco la pensano e poco la chiediamo. Si vede che gli/ci piace ancora il modello di prima. Ovvio che lasciare molto di quello in cui abbiamo creduto per seguire altro non è indolore. Ma non è stato certo indolore lo schianto contro il covid-19. Ci aspettano giorni feriali di duro lavoro visto che, come diceva Bobbio, non si diventa «popoli civili coi gesti magniloquenti nei giorni di festa». Non si disegna il futuro tamburellando dai balconi o cavandosela con qualche generosa donazione per aiutare a realizzare un ospedale che Regioni e Stato non sono in grado di allestire (usare il nostro cuore generoso confonde le carte e finiamo con l'assolvere l'incapacità di chi ha governato la cosa pubblica), ma lo si deve volere, impostare, preparare e mantenere nei giorni della quotidianità, quelli di domani. Giorni in cui arrivare con idee chiare, da chiarirsi oggi.

Mi affligge sentire parlare di "ripresa", di "ripartenza", di "riapertura" senza che tutto ciò si appoggi su un minimo di dichiarazione di errore da parte di chi ha l'onore di fare politica. Il 22 marzo scrivevo su Avvenire: «Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema». Respiravamo dentro un sortilegio che è deflagrato, punto e basta. Chi ci vuole portare nella normalità di prima, ci inganna. Non provo vergogna a chiedere quale normalità hanno in testa quelli che tengono i cordoni della politica, dell'economia e del governo del territorio: sindaci, deputati del territorio, consiglieri regionali, ministri, autorità sociali e religiose, manager... Vengano allo scoperto, please. Quale economia per il futuro? Uno vale uno? In nome della ripresa, "liberi tutti"? Fermiamo le "fastidiose" tutele ambientali? Qualche sindaco sta già togliendo le limitazioni al traffico nei centri urbani per garantire il distanziamento con l'auto. È progresso questo? C'è anche chi propone condoni e semplificazioni urbanistiche (= chiudere gli occhi)? L'agricoltura intensiva vuole spandere più letame su un paesaggio già malato? Siccome in quarantena la logistica tira, allora gli facciamo costruire subito qualche migliaio di capannoni? E il turismo? Ancora di massa, ma con un po' di plastica per distanziarci? Ci vanno bene comuni che si prendono a morsi tra loro pur di acciuffare la prima Ikea che passa? E la ricerca? E la scuola? Mica nascono sotto al cavolo i medici che applaudivamo. Nascono alle medie, al liceo, nelle università: tutta roba pubblica. Da curare. E potrei andare avanti per ore. È chiaro che l'occupazione ora è l'urgenza delle urgenze, e tutti vogliamo e dobbiamo generare lavoro. Ma è imperativo favorire tutte quelle occupazioni dignitose e sostenibili che abbiamo preso in giro fino a ieri (i green job, per intenderci). E allora facciamo una lista di tutti i mestieri più virtuosi e proponiamoli alle task force che nascono come funghi qua e là. Non c'è solo tecnologia, ma c'è la manutenzione del territorio, il recupero edilizio, il turismo lento, la cura del verde, l'arte e la cultura, le economie legate alla bellezza dei paesaggi, le economie della conoscenza, quelle circolari e civili e così via. E se anche non avessimo una lista pronta e completa, almeno teniamoci il dubbio che la lista di prima non è più ricevibile, che dare euro a tutti, tipo elicottero che getta soldi sulla folla ed essere silenti davanti a tutto questo, significa accettare la versione 2.0 dell'economia dei consumi (almeno diano solo a chi è bisognoso davvero).

Dobbiamo coltivare più dubbi. Il dubbio di oggi è la nostra speranza domani. Se fatichiamo a fare questo, significa che siamo arrivati davanti al covid culturalmente fiaccati. E questa allora sarebbe la prima cosa da desiderare e chiedere. Abbiamo lasciato che si trascurasse la nostra crescita intellettuale e ci siamo buttati sulle "cose" e oggi, che le cose si sono rotte, siamo spaesati. Non è da pazzi chiedere energia culturale. Altrimenti persino le buone idee che verranno rischieranno di slittare su un pavimento troppo scivoloso, senza appigli e riferimenti, pronto di nuovo a obbedire al più forte, al più ricco o a quello con più like. Da domani ci tocca mettere insieme i pezzi del cambiamento impegnandoci nei giorni feriali e non nella baldoria dello spazio ristretto del balcone. Dipende da noi.

(da "Coscienza" 1-2/2020)