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Contro la paura ci vuole il cambiamento

25 Ottobre 2016

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di BEPPE ELIA

Se dovessi indicare quale sentimento prevalga oggi nelle società occidentali, direi la paura. Spesso inconfessata o esorcizzata attraverso ostentazioni di sicurezza e di forza, la paura si cela però nei pensieri di molte persone, nelle decisioni di intere popolazioni, nel ritorno ad ideologie che pensavamo non dovessero più occupare lo scenario dei nostri Paesi. Alla paura cerchiamo di dare un nome per
individuare un nemico da combattere e a cui attribuire le colpe di molti problemi sociali che non sappiamo risolvere. Questo nemico è individuato come esterno a noi: l'Isis, mostro che genera figli crudeli anche nelle nostre società ordinate; gli stranieri, che invadono le nostre terre e alimentano nuove tensioni sociali; la burocrazia europea, che opprime le nostre esistenze con norme fatte apposta per limitare la nostra libertà.

Vi sono certo ragioni serie che motivano la preoccupazione. Vedere nostri concittadini vittime di agguati terroristici nello svolgimento di comuni attività di vita (viaggiare, lavorare, divertirsi) crea un diffuso timore. Ma anche osservare che il cielo delle nostre economie, a dispetto di alcuni segni di miglioramento, è solcato da nubi minacciose e non promette schiarite in tempi brevi provoca reazioni analoghe. Viene meno la fiducia in persone, organizzazioni o istituzioni da cui vorremmo scelte autorevoli, capaci di rispondere ai nostri bisogni e attese. Il problema varca i confini nazionali. Basta osservare quanto siano rilevanti i movimenti ostili ai processi di immigrazioni con punte apertamente xenofobe, quanto crescano il nazionalismo e l'antieuropeismo (la Brexit ne è chiara espressione ed è anche simbolo della sfiducia che attraversa trasversalmente i Paesi europei), quanto il successo di Trump al di là dell'oceano si stia costruendo su un'idea di America che pensa soprattutto a se stessa e al proprio prestigio.

Ritenere che le cause dell'insicurezza siano da attribuire a nemici esterni ci inquieta: ciò spiega il ripiegamento entro spazi locali e la predilezione per politiche difensivistiche. Allo stesso tempo ci rassicura, perché possiamo evitare di guardare troppo in noi stessi, ai criteri che guidano le nostre vite, ai modelli culturali che le ispirano, alle forme sociali che orientano i nostri rapporti. Pur senza negare l'urgente necessità di politiche attente a salvaguardare la vita delle persone e la pace delle comunità, contrastando le minacce che provengono dall'esterno di esse, non possiamo dimenticare che molte forme di disagio si alimentano di un sistema sociale lacerato, frutto di scelte disattente alle necessità di chi è più debole  più esposto ai rischi dei periodi di crisi. Vari osservatori concordano sul fatto che è stato il disagio sociale ad armare la mano di molti terroristi in Francia come in Belgio e in Germania, mentre la fede jihadista era solo la bandiera del loro combattimento, la copertura ideologica di un'ostilità verso le comunità di appartenenza. Che il tessuto umano si sia sfrangiato lo constatiamo anche dalle tensioni che talvolta emergono con virulenza nelle periferie delle nostre città, nei contrasti sociali, nelle manifestazioni pubbliche, nel rassegnato pessimismo di molti nostri concittadini che non hanno speranze per il futuro loro e dei figli.

La risposta dovrebbe prevedere anzitutto un salto qualitativo dell'iniziativa politica, ancora inadeguata alla complessità e alla profondità della crisi che stiamo attraversando. Non voglio dire che i governi siano stati incapaci di fronteggiare i problemi di questa fase sociale (azioni ne sono state pensate e attuate). L'impressione è però di un'insufficienza delle soluzioni intraprese e di un logoramento delle forze politiche, indebolite da un contrasto perenne fra loro e al loro interno, che rende difficile orientare le scelte intorno alle priorità di questo momento storico. La dialettica politica è un grande valore democratico quando è fatta anche di ascolto e confronto. Ma quando diviene scontro permanente, perde la sua reale funzione. Il bene comune rischia così di restare parola vuota.

Il nostro premier ripete spesso che occorre rinnovare profondamente la realtà del nostro Paese e dell'Europa, e chiede agli Stati dell'Unione Europea un nuovo e più forte spirito di collaborazione, che superi le grettezze nazionalistiche e non si fermi a fissare rigide regole in campo economico e finanziario. Condivido appieno questo orientamento, ma occorre dotarsi di adeguati strumenti per realizzarlo. Servono maggiore coesione, più umiltà, la voglia non tanto di primeggiare quanto di mettersi al servizio di un progetto che si persegue con gli altri e non contro gli altri. In questo si manifesta una vera leadership politica che superi ogni velleità populistica.

Comunque non basta la politica; è necessario che nella comunità civile trovino spazio forze vitali, aggregazioni sociali e culturali, organizzazioni che sperimentano nuovi modi di lavorare e di creare relazioni interpersonali, singole persone che non si rassegnano ma offrono generosamente il loro contributo di idee ed esperienze. Papa Francesco, che ha uno sguardo attento alla situazione del mondo di oggi, ha offerto in questi ultimi anni alcune indicazioni preziose, che dovremmo imparare a tradurre nello spazio civile. Dice nella Laudato si': «Molte cose devono riorientare la propria rotta, ma prima di tutto è l'umanità che deve cambiare. Manca la coscienza di un'origine comune, di una mutua appartenenza e di un futuro condiviso da tutti. Questa consapevolezza di base permetterebbe lo sviluppo di nuove convinzioni, nuovi atteggiamenti e stili di vita. Emerge così una grande sfida culturale, spirituale ed educativa che implicherà lunghi processi di rigenerazione». Raccogliere questa sfida spetta a tutti noi.

(da Coscienza n.2/2016