Menu principale
In evidenza
BANNER 5X1000
banner facebook
Banner Giovani
Newsletter
Area riservata
News
PrintE-mail

VIENI SIGNORE GESU'! Il fuoco acceso della gioia

13 Dicembre 2015

Immagine

Sempre lieti nel Signore

L'avvento dedica questa domenica al gaudete. La gioia è dunque l'oggetto delle preghiere e delle letture, tra le quali spicca l'epistola paolina, che ne formula l'esplicito invito (Fil 4,4-7). La liturgia si è un po' risparmiata e il brano risulta troppo breve. Ciononostante, in poche pennellate, esso raggiunge lo scopo di trasmettere quella che san Francesco, in un racconto magistrale a frate Leone, chiamerà la "perfetta letizia". Paolo è «in catene per Cristo» (1,13), e la lettera lo ricorda più volte, chiamandola «la grazia delle catene» (1,7). Ebbene, ciò che risulta singolare è che questo prigioniero col futuro sospeso (se verrà messo a morte oppure liberato ancora non lo sa), questo formidabile viaggiatore ridotto all'immobilità, riesca a incitare i fratelli a vivere di gioia e di pace. Sono la gioia e la pace che vengono dalla fede, e che gli danno la coscienza di essere vivo anche nello stagno di un carcere. «Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti».

Il motivo è subito detto, ed è che «il Signore è vicino» (4,5). Certezza dell'avvento, quindi, che per Paolo non è una questione cronologica. Non gli interessa sapere la data della parusia, perché la sua convinzione è che a seguito della risurrezione tutto il tempo della storia è segnato dalla presenza di Cristo. Certamente il Signore tornerà nella gloria, ma ciò che conta è sentirlo vicino, ed è come lo attendiamo. Si può infatti attendere con tristezza o angoscia; oppure con noia, addormentandosi, e si può attendere con passione, valorizzando il presente, e liberandolo dalle scorie che impediscono il riconoscimento. Nell'inno alla gioia della lettera ai Filippesi risuona però anche un motivo umano-ecclesiale, ed è l'amabilità con cui questa comunità si è stretta intorno alle catene dell'Apostolo. Il brano stesso formula un augurio: «La vostra amabilità sia nota a tutti». E così è avvenuto. Essa è risuonata oggi nella nostra assemblea, e ne parliamo ancora. 

Filippi deve aver saputo scrivere nel cuore di Paolo, a differenza di Corinto amata e boriosa, di Tessalonica timorosa e fragile, e dei Galati che lo hanno tradito. Coi filippesi avverte «comunione di spirito, sentimenti di amore e di compassione» (2,2), e li chiama «fratelli carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona» (4,1). Informata della sua prigionia, la comunità lo assiste economicamente e moralmente, inviandogli Epafrodito per stargli vicino e confortarlo nell'ora della prova. Che esempio per le nostre assenze verso i tanti cristiani in sofferenza! La gioia di Cristo si apre dunque una via nella gioia della Chiesa. Non c'è gioia nella solitudine, essa è una grazia, un dono che passa dall'Altro all'altro. C'è gioia quando avverti di dover dire "grazie". È un punto su cui dobbiamo riflettere: se siamo una Chiesa amabile, oppure talmente antipatica e seria da aver dimenticato che Vangelo significa "notizia gioiosa". Ce lo dice con parole rudi, il coriaceo curato di Torcy:

«Guarda, ti do una definizione a rovescio di popolo cristiano. L'opposto di un popolo cristiano è un popolo triste, un popolo di vecchi. Mi dirai che la definizione non è molto teologica. Ne convengo. Ma può dar da pensare ai signori che sbadigliano alla messa della domenica. Sicuro che sbadigliano! Non pretenderai che in una stiracchiata mezz'ora alla settimana la Chiesa possa insegnargli la gioia a quei signori [...]. Avrei diritto di andarmene parato come la regina di Saba io, perché porto la gioia. Ve la darei per niente se soltanto me la chiedeste. La Chiesa è la depositaria della gioia, di tutto il patrimonio di gioia riservato a questo triste mondo. Quello che avete fatto contro di lei è stato fatto contro la gioia».

Colui che è più forte di me

Il vangelo del giorno si apre con una domanda imbarazzante e sincera che tutti ci portiamo dentro: «Che cosa dobbiamo fare?» (Lc 3,10-18). Già. Cosa fare: ora, in questo momento, nelle scelte del lavoro, della famiglia, della politica o della religione. Cosa fare della mia vita, cosa devo fare nella mia vita, per compiere la volontà di Dio, e raggiungere lo scopo per cui sono stato messo al mondo. È la domanda del senso, di una società dell'incertezza, che l'evangelista Luca pone sulla bocca della folla stretta intorno al Battista. Giovanni vola basso e non dà risposte sorprendenti, ma fa capire qualcosa: che tutti devono convertirsi, che a tutti è offerta una possibilità, e che per cambiare il mondo occorre cominciare a farlo per davvero. Non c'è bisogno di fuochi d'artificio, ma: se hai ha mangiare e da vestire per due danne a chi non ne ha; nell'esercizio delle tue attività non essere corrotto e non rubare; se ti è stato dato del potere non usarlo con prepotenza e per opprimere.

Niente di più. Ma si deve riconoscere che se tutti (i singoli e i grandi organismi della terra) facessero di questi tre elementari precetti di giustizia il loro avvento o il loro giubileo, allora la faccia del mondo cambierebbe, e di molto! Un soffio di aria fresca circolerebbe per le strade. Non c'è gioia nell'avarizia, nella disonestà e nella crudeltà, perché non c'è condivisione, e dove non c'è condivisione non c'è gratitudine. La folla subisce l'incanto del Battista, si lascia immergere nel fiume della purificazione, e si chiede perplessa se non sia per caso lui l'atteso, cioè la Parola che tutti stanno aspettando. Ma Giovanni distoglie gli occhi da se stesso e proclama che è solo venuto ad annunciare un Altro. Non ha ancora ben capito come svolgerà la sua missione, e la rende con l'immagine familiare alla sua scelta di vita che è il giudizio, mentre sappiamo che Gesù sceglierà la via della misericordia. Tuttavia dà una testimonianza di fede, e lo definisce «colui che è più forte di me».

L'immagine è importante. Ci persuade che le nostre possibilità non esauriscono quelle di Cristo, che è il più forte perché è via, conoscenza e grazia. Alla folla che chiede "cosa dobbiamo fare", egli risponderà: "Vieni e seguimi". Il cristianesimo è sequela, non sociologia ma cristologia. Tutto il resto viene dopo, e ruota come un satellite intorno al centro che è la persona di Cristo. L'essenza del cristianesimo, scriveva Romano Guardini, «non è in quello che il cristianesimo mi dà, ma in quello che il cristianesimo è: Gesù Cristo». Lui è il più forte, e senza di lui sono come l'ape che non trova più un fiore dove nutrirsi. Egli bussa alla mia porta, e dopo averlo accolto mi comunica la sua capacità di amare. Cristo è molto più che il nostro fondatore, molto più che il nostro ispiratore, è tutta la nostra gioia. Il suo battesimo non è temperato dall'acqua, ma dal fuoco. «Egli battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Da questo battesimo nasce la Chiesa che noi dobbiamo essere: fuoco acceso.

«Se Gesù Cristo non è la sua ricchezza, la Chiesa è miserabile. La Chiesa è sterile se lo Spirito di Gesù Cristo non la feconda. Il suo edificio crolla se Gesù Cristo non ne è l'Architetto, e se il suo Spirito non è il cemento che tiene insieme le pietre vive con cui è costruito. È senza bellezza, se non rispecchia l'unica bellezza del volto di Gesù Cristo, e se non è l'Albero la cui radice è la passione di Gesù Cristo. La scienza di cui si vanta è falsa; è falsa la sapienza che l'adorna, se non convergono l'una e l'altra in Gesù Cristo, e se la sua luce non è una "luce illuminata". Il suo nome stesso ci è indifferente, se non evoca subito il solo nome dato agli uomini per la loro salvezza. Non rappresenta nulla per noi, se essa non è per noi il sacramento, il segno efficace di Gesù Cristo» (Henri de Lubac).