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COSCIENZA Migranti: ma che umanità è la nostra?

23 Agosto 2015

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di BEPPE ELIA

Papa Francesco suscita spesso entusiasmi non solo fra i credenti, ma, talora in modo insospettato, anche fra chi dice di non credere. E ciò avviene quando narra la tenerezza di Dio verso ogni uomo o donna, la preferenza accordata ai più deboli e ai più poveri, la misericordia con cui accoglie ogni persona che si presenti con le sue fragilità e il bisogno di essere perdonato. E l'applauso scatta anche quando richiama con severità le molte situazioni in cui si rivelano la disumanità delle relazioni, le disuguaglianze sociali, la sofferenza degli oppressi, la cultura dell'abbandono e dello scarto.
Il coro elogiativo si trasforma però in un silenzio imbarazzato quando egli indica le cause di tali situazioni, esplicitando le responsabilità, nella Chiesa, nella comunità civile, nei rapporti internazionali e chiede comportamenti conseguenti.
Lo abbiamo visto quando ha additato le colpe dei paesi che forniscono armi ai governi belligeranti dell'Africa e del Medio Oriente, o quando ha invocato la necessità di iniziative politiche adeguate ad affrontare la questione delle migrazioni o dei massacri di tanti uomini e donne (non solo cristiani), denunciando l'indifferenza di chi potrebbe, e dovrebbe, intervenire.
Non si agisce sul traffico d'armi perché si intaccherebbero fonti di ricchezza cui non vogliamo rinunciare, non si ha il coraggio di guardare negli occhi chi, attraversando deserti e mari e rischiando la vita, chiede a noi di poter accedere ad una dignità cui ha diritto, perché questo potrebbe mettere in discussione i nostri livelli di sicurezza e di benessere.
La xenofobia, l'ostilità verso chi è diverso, il rifiuto dell'accoglienza, anche quando è evidente che chi domanda aiuto viene da situazioni di guerra e di morte, sono ormai nell'aria che respiriamo (la lettura di alcuni social network è assai istruttiva per comprendere il clima sociale); e il successo di talune forze politiche, che di questi umori sono interpreti abilissimi, ne è la prova.
Il silenzio o il balbettio di molta politica (che pure non si riconosce in queste espressioni intolleranti) sono figli dell'egoismo e della paura, perché la politica interpreta, quando non contribuisce ad alimentare, gli egoismi e le paure della gente. E di conseguenza chi è chiamato a decidere e riterrebbe giusto compiere scelte più eque, spesso si adatta, per timore di erodere il suo fragile consenso. Ma che umanità è la nostra? Che Europa andiamo costruendo? Eppure non si esce dalle secche della crisi di oggi pensando di salvarci da soli, di poter erigere alte barriere a difesa di territori sempre più angusti, perché sarà la storia stessa a rompere le costruzioni che artificialmente abbiamo edificato.
Occorre smascherare la falsa contrapposizione fra le esigenze della sicurezza di chi abita il suo territorio e quelle della solidarietà verso chi domanda aiuto in nome della comune umanità; perché la sicurezza è figlia non di un ordine imposto con politiche repressive e di contenimento ma anzitutto di una cultura di rispetto reciproco, di accettazione della diversità, di condivisione. È chiaro che dobbiamo esigere la legalità da parte di tutti, che dobbiamo evitare infiltrazioni terroristiche attraverso una complessa e lungimirante iniziativa politica, ma questo non può trasformarsi in una cupa avversione verso interi gruppi sociali. Così come non possiamo più ignorare l'urgenza di creare, attraverso un paziente lavoro politico e forme di cooperazione internazionale, là nei paesi di origine e di transito, condizioni e opportunità che rendano meno necessario questo esodo.
E una società più fraterna dovrebbe essere anche nei progetti delle nostre comunità cristiane, spesso arroccate e incapaci di una presenza profetica. Esiste certo il generoso impegno di istituzioni, di varie associazioni (non esclusi alcuni gruppi del MEIC), di talune parrocchie, di famiglie e singoli, per accogliere chi fa più fatica e per far crescere la coesione sociale, ma rimangono isole in un mare dove i cambiamenti sono vissuti con inquietudine e preoccupazione. E il fatto di vivere oggi un momento di difficoltà - economiche, per la carenza di lavoro, per il timore del futuro - non può essere la motivazione per allontanare dalle nostre scelte e dai nostri comportamenti la solidarietà; ben sapendo che spesso sono proprio coloro che hanno meno risorse economiche ad essere più ospitali.
Nel 1941-42 Etty Hillesum, giovane ebrea olandese, descrisse in un Diario il suo eccezionale cammino umano e spirituale di fronte allo sfacelo di quegli anni. Ella dice in un passaggio del suo racconto esistenziale: «L'unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l'unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. Forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch'esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all'ultimo la tua casa in noi».
Etty, pur potendo salvarsi, scelse invece di condividere la sorte del suo popolo perseguitato, per «difendere la casa di Dio» nel cuore degli uomini. Per noi cristiani questo dovrebbe essere il programma, in questi giorni difficili. Papa Francesco ci ripete che la casa di Dio è là dove la gente soffre, è indifesa, subisce gli effetti della devastazione delle relazioni e dei territori, cerca la pace, ha sete di giustizia.
La sua ultima enciclica, appena presentata, richiama in modo puntuale le stesse urgenze, parlando del tema dell'ambiente e della custodia del creato. Quando egli dice che «molte cose devono riorientare la propria rotta, ma prima di tutto è l'umanità che ha bisogno di cambiare. Manca la coscienza di un'origine comune, di una mutua appartenenza e di un futuro condiviso da tutti» e indica, non solo ai cristiani, la via di questo cambiamento, che impone mutamenti profondi, personali e collettivi, ci offre non un bel documento da ammirare e commentare, ma un impegnativo progetto da realizzare («occorre sentire nuovamente che abbiamo bisogno gli uni degli altri, che abbiamo una responsabilità verso gli altri e verso il mondo, che vale la pena di essere buoni e onesti. Già troppo a lungo siamo stati nel degrado morale, prendendoci gioco dell'etica, della bontà, della fede, dell'onestà ed è arrivato il momento di riconoscere che questa allegra superficialità ci è servita a poco»).
Anche questa volta, suppongo, leggeremo e sentiremo grandi elogi, ma temo anche la sotterranea ostilità di chi ha altri e ben consolidati interessi. Sta a noi, alle nostre comunità, porre nell'agenda delle scelte future queste priorità, senza velleitarismi ma con grande realismo. Siamo certo una minoranza, ma questo non ci autorizza al pessimismo e all'accettazione; dobbiamo avere coscienza di poter essere un piccolo seme, ignorato, magari anche calpestato, ma da cui può generarsi un grande albero.

(da "Coscienza" n. 3/2015)