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#DISTANTIMAUNITI Una liturgia senza Pasqua, una Pasqua senza liturgia

04 Aprile 2020

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di TIZIANO TORRESI

La pandemia che ha sconvolto, in modo repentino, le nostre vite ha anche messo a nudo ferite, povertà e risorse della comunità ecclesiale. Da un lato ha ispirato gesti di solidarietà e di generosità, che la Chiesa non ha mai lesinato nei momenti più drammatici della storia italiana. Dall'altro ha imposto ritmi, spazi e modi in cui si esprime la fede fino a ieri impensabili. Al digiuno quaresimale si è sovrapposto un forzato digiuno eucaristico, le relazioni tra le persone si sono quasi estinte, le porte del tempio sono rimaste socchiuse solo all'orante e al penitente solitario. Dinanzi a tutto questo le polemiche suscitate da profeti di sventura e devoti per professione, lesti a invocare processioni taumaturgiche, mutilazioni della libertà di culto, inappellabili diritti ai sacramenti, sono parse inopportune, talvolta ridicole. Nella Chiesa in tempo di epidemia si respira tuttavia qualcosa che tradisce un'esigenza più profonda, latente, alla quale si rischia di dare una risposta parziale e potenzialmente nociva.

Sappiamo come la televisione e il web offrano di continuo pillole di spiritualità e surrogati di liturgia. La messa in televisione è per molti già un'abitudine. Rosari, novene, meditazioni, persino esercizi spirituali sono fruibili in streaming. Vescovi e presbiteri s'industriano, in modi talvolta bizzarri, a consolare i fedeli sui social. Questa prossimità virtuale può alleviare le pene della clausura domestica. Ma non dobbiamo nasconderci che è un palliativo, una medicina che si limita a combattere provvisoriamente i sintomi di una malattia, senza risolverne la causa. Quale è questa malattia? Quale è la causa? La solitudine in cui siamo rinchiusi può forse aiutarci a capirlo.

Sebbene la fede non sia un fatto privato, essa ha una radice intima, personale, singolare, che non dovremmo mai dimenticare. Essa affonda e si nutre nella coscienza, in quel sacrario inaccessibile agli altri, dove siamo soli con noi stessi e con il nostro esclusivo dolore: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9, 23). Abitare le nostre case senza poterne uscire è difficile. Abitare in noi stessi lo è molto di più. Benché cristiani non eravamo abituati al silenzio. Magnificato a parole in paludati convegni, il silenzio è un macigno, è assordante, è insostenibile, ora che si tratta di viverlo per davvero. Ma guardarsi dentro è un rischio che vale la pena di correre, un travaglio - nel senso letterale del termine - necessario perché venga alla luce la vita nuova dello spirito.

È allora tempo di chiudere la propria cella come invitava a fare san Romualdo, per gettarsi il mondo alle spalle e provare a discernere i pensieri con la stessa cura con cui il pescatore sceglie i pesci. È tempo di imporre a noi stessi un dovere di coerenza, di austerità, di radicalità evangelica, per rinnegare il proprio egoismo, le proprie grettezze, le proprie ambizioni. È tempo di scrivere sulle nostre agende, improvvisamente vuote, un impegno inconsueto: "me stesso"; di coltivare le virtù della pazienza e dell'essenzialità; di scoprire quanto sia inutile affannarci: le vesti di Salomone, con tutta la sua gloria, non saranno mai belle come i gigli dei campi (Mt 6,29). «Ecco, dunque il momento favorevole!» (2Cor 6,2), che ridona sapore al tempo, primo oggetto di benedizione della Creazione, sinora divorato dalla bulimia dei nostri ritmi convulsi.

Questo esilio ci serva da lezione. Torneremo ad almanaccare su progetti pastorali, piani ecclesiali, sussidi e moduli formativi, riunioni e congressi accusando il mondo di aver corso troppo ma con l'ansia recondita di adattarci alle sue mode e ai suoi capricci? Torneremo a compiacerci di opere autoreferenziali, nei linguaggi e nei destinatari, col solo scopo di metterci a posto la coscienza? Torneremo a "fare" la Chiesa col solo metro dei meriti umani, dello zelo burocratico, del presidio morale, dell'eterna e patetica sfida interna tra reazione e rivoluzione, del presenzialismo mondano?

Per guarire queste malattie non bastano i cinguettii virtuali, i predicatori improvvisati davanti a una webcam, i pannicelli caldi di un hashtag ottimista. Per guarire bisogna riconoscere di essere malati, andare alla causa. Può apparire banale - ed è significativo che sembri tale - ma occorre un sussulto di responsabilità personale che ci faccia tornare a essere uomini e donne dello spirito, cristiani esigenti verso noi stessi e perciò credibili ai lontani e agli indifferenti. Che ci faccia essere e non fare Chiesa: è tempo di sconfiggere il virus che strozza il respiro negli alveoli polmonari della Chiesa, cioè nelle nostre coscienze, di scegliere la parte migliore, che non ci sarà mai tolta.

L'impossibilità di vivere la liturgia rivela questa esigenza luminosa e drammatica di spiritualità, in larga misura, frustrata. Non c'è messa televisiva che possa colmare il desiderio di essere sostanza, con la carne e con i gesti, con la parola e con il canto, della fonte e culmine della vita della Chiesa. L'avvilente esilio dalle celebrazioni può certo aiutarci a vivere la preghiera nel ritmo dei giorni, liberati dalla frenesia, grazie al tesoro della liturgia delle ore, che non è dote esclusiva del monachesimo. Ma deve soprattutto educarci ad aver fame e sete di una liturgia autentica, desiderata nell'anima e consapevolmente corrisposta, che sia finalmente una festa della fede.

Torneremo a celebrare per un'abitudine, per una ritualità scenica, per un precetto? Torneremo a una liturgia senza mistero, senza gusto, senza passione? Una liturgia senza Pasqua? Una Pasqua senza liturgia ci riporta, forse, all'essenziale.

Ci rammenta che, se non possiamo riviverla nel rito - riviverla, non commemorarla! - la grazia non si vincola ai sacramenti: la Pasqua è dentro la nostra pelle, nel nostro silenzio, nel nostro corpo sofferente, nel dolore del mondo: è l'inesauribile e indimostrabile comunione d'amore col Risorto. Riviverla, farne nutrimento dell'esistenza, possiamo non già in streaming, ma partecipando a una mensa sempre imbandita. Quella della Parola. Con essa udremo tra le pareti di casa lo stormire delle fronde d'ulivo intrecciato agli "Osanna", sentiremo il profumo del crisma che fa splendere di gioia il volto, ascolteremo il rumore dell'acqua nel catino e il fruscio dell'asciugatoio attorno a un piede, coglieremo i bagliori di un lume che pur diviso in tante fiammelle non estingue il suo vivo splendore. Torneremo a leggere: «Non è qui!». E ci toglieremo i sandali perché la nostra stanza non sarà più un'angusta prigione da maledire ma un luogo sacro in cui adorare.

Al cuore della veglia pasquale c'è una preghiera che emoziona. Segue la settima lettura e precede l'esplosione di gioia dell'inno degli angeli. Segna gli ultimi passi prima di arrivare alla vetta dell'anno liturgico, all'attimo in cui la Vita ha l'ultima parola sulla morte e sulle labbra può sgorgare, incontenibile, l'Alleluia del cuore. Quella preghiera, chiave di lettura dell'intera storia della salvezza, chiede a Dio di compiere l'opera della sua misericordia: «tutto il mondo veda e riconosca che ciò che è distrutto si ricostruisce, ciò che è invecchiato si rinnova e tutto ritorna alla sua integrità, per mezzo del Cristo, che è principio di tutte le cose». È preghiera che illumina "la" notte. Sia preghiera che illumina l'oscura notte che stiamo attraversando.