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COSCIENZA Riforme, le ragioni del sė

10 Luglio 2015

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di STEFANO CECCANTI
(da Coscienza n.1-2/2015)

Per valutare il percorso delle attuali riforme costituzionali ed elettorali, compreso il cosiddetto clima in cui maturano, non si possono isolare i singoli passaggi, ma occorre tenere presente anzitutto lo sviluppo dell'attuale legislatura repubblicana e, a ritroso, il percorso della trasformazione costituzionale e del sistema dei partiti.

I tempi nella legislatura attuale: se tre anni per riformare sembrano pochi

La XVII legislatura repubblicana è iniziata con alcune difficoltà che hanno rivelato una malattia profonda del sistema. Per la prima volta in termini così chiari (ma problemi analoghi si erano già verificati nel 1994, nel 1996 e nel 2006) l'anomalia di due Camere che danno entrambe la fiducia, in un sistema dei partiti dove le coalizioni post-voto ove necessarie sono molto problematiche, hanno bloccato la formazione del Governo. A quel punto si è deciso di posporla all'elezione del Presidente della Repubblica, dove però si è registrata una nuova impasse. Tre dei quattro principali schieramenti politici hanno pertanto deciso di rivolgersi praticamente in ginocchio al Presidente della Repubblica uscente, pur quasi novantenne, chiedendogli la disponibilità ad un rinnovo, sia pure limitato, del suo mandato, in cambio della disponibilità a varare in tempi realistici una riforma delle istituzioni tesa ad evitare nuove paralisi. Il quarto schieramento si è auto-escluso da questo percorso a partire da convenienze di parte piuttosto evidenti, visto che esso trae alimento nei suoi consensi dal cattivo funzionamento del sistema.

A metà del 2013 è iniziato pertanto, anche attraverso la commissione di ‘saggi' nominata dal governo Letta a fini ricognitivi per spoliticizzare il conflitto, un percorso di revisione limitata della seconda parte della Costituzione (bicameralismo e rapporto centro-periferia), più limitata di quella delle precedenti Commissioni parlamentari che avevano invece a oggetto l'intera seconda parte, che si è dato un tempo di tre anni. Il percorso dovrebbe infatti concludersi nei primi mesi del 2016 col referendum finale (di approvazione, se visto dal lato di chi lo sostiene, di opposizione se visto dal lato di chi lo avversa). Un tempo doppio rispetto a quello in cui l'Assemblea costituente riscrisse l'intera Costituzione.

Nel frattempo la Corte costituzionale aveva anche provveduto a varare una normativa elettorale dichiaratamente d'emergenza che risolveva alcuni problemi di quella precedente (premio in seggi senza soglie minime in voti, liste bloccate troppo lunghe) ma creandone altri (quasi certezza di una grande coalizione obbligata tra forze eterogenee, preferenza unica in circoscrizioni enormi): essa è rimasta in vigore per più di un anno e, peraltro, almeno per il Senato, si è trattato di una legge mai votata da un Parlamento nella storia della Repubblica (mentre quella Camera assomiglia a quella vigente pre-1993). In nessun Paese democratico potrebbe essere considerato normale andare a votare con una legge non decisa dal Parlamento, peraltro da una Corte che opera in un sistema dove si è deliberatamente voluto non costituzionalizzare nessuna formula elettorale e dove quindi non può essere considerato sensato che in seguito a tale intervento di emergenza qualsiasi dissenso di merito si trasformi quasi automaticamente in un'accusa di incostituzionalità. Per coordinare questo intervento con la riforma costituzionale si è quindi convenuto che la legge che è stata appena approvata non sia applicabile se non da metà 2016, quindi dopo due anni e mezzo dalla sentenza della Corte.

Trattandosi di regole del gioco sono stati ricercati in un accordo politico (le riforme devono essere tecnicamente fondate, ma poggiano comunque sempre su un accordo politico) dei punti di equilibrio che assicurassero la permanenza del consenso delle tre aree politiche che avevano convenuto sulla rielezione di Napolitano sia sulla riforma costituzionale sia su quella elettorale, consenso che è rimasto integro fino all'elezione di Sergio Mattarella. A quel punto una delle forze politiche che aveva concordato sul merito di entrambe le riforme, votando positivamente in Senato, pur non contestando nulla sulla scelta della persona, ha invocato una lesione del metodo nella scelta del nuovo inquilino del Colle. Metodo che probabilmente identificava con quello da cui si era partiti nel 2013, quando Bersani aveva in origine offerto una terna di nomi: Amato, Marini e lo stesso Mattarella. In questo caso il partito di maggioranza relativa non ha seguito il medesimo strumento della terna, ma ha optato per un nome secco, tenendo però conto delle indicazioni fornite dalle altre forze politiche, compresa Forza Italia: non una personalità politica divisiva e di primo piano negli ultimi anni e un'alternanza di cultura politica rispetto al predecessore Napolitano. È cambiato quindi lo strumento, ma non il metodo di coinvolgimento. In realtà, a ben vedere, Forza Italia ritiene di aver pagato questo atteggiamento di sostegno alle riforme ma di contrarietà al Governo (una posizione indubbiamente complessa da spiegare) in termini di consensi elettorali: qui sembra risiedere il vero problema del cambio di atteggiamento, anche se i precedenti storici di partiti che prima assumono atteggiamenti responsabili e poi si spaventano per il consenso fuggendo in derive identitarie (come il Pci di Berlinguer con la fine della solidarietà nazionale) dimostrano che i problemi di consenso si possono in realtà aggravare con questo passaggio.

Le due riforme erano quindi condivise sui contenuti fino all'elezione del Presidente della Repubblica. Un'esigenza di tipo politico del tutto indipendente dai contenuti ha poi spinto Forza Italia a sommarsi all'ostruzionismo del Movimento 5 Stelle, che non sarebbe stato superabile senza la decisione di considerare le successive riunioni della Camera come un'unica seduta cosiddetta fiume. Altrimenti, sulla base di norme regolamentari sopravvissute alle riforme di questi anni ad apertura di ogni seduta sarebbe stato possibile presentare valanghe di nuovi sub-emendamenti destinati solo a bloccare la decisione. La scelta della seduta-fiume è stata una legittima difesa anti-ostruzionistica, senza la quale si sarebbe affermato il principio della tirannia delle minoranze. Il 17 gennaio 1953 Alcide de Gasperi fu costretto a mettere la fiducia (allora non regolata formalmente, ma ritenuta implicita prerogativa del Governo) sulla riforma elettorale ingiustamente denunciata come legge truffa, la quale, se fosse poi scattata, avrebbe spinto la sinistra a riformarsi molto prima di quanto accadde. Intervenendo alla Camera espresse questo concetto in modo analogo e molto felice, che merita di essere ripreso per esteso perché non espone un principio contingente, ma un architrave del funzionamento di qualsiasi democrazia aspiri ad essere decidente: «Siamo intervenuti perché ci trovavamo dinanzi, non ad un rallentamento della macchina, ma già al sabotaggio, all'insabbiamento della macchina. E noi non avevamo un'altra alternativa, onorevoli colleghi, tranne la resa senza condizioni innanzi all'abuso del regolamento, innanzi alla negazione del principio, che è fondamentale per la convivenza fra maggioranza e minoranza, e cioè che la minoranza ha diritto alla critica e la maggioranza ha diritto alla decisione [...]. La procedura normale dell'attività parlamentare è quella che si fonda su due princìpi, su due criteri, ai quali ho prima accennato: libero controllo e discussione per tutti e decisione da parte della maggioranza. Quando questi due criteri vengono seguiti siamo sul binario giusto, normale, e non occorre allora ricorrere ad altri mezzi. Ma che cosa vuol dire questo? Vuol dire che non è vero che non abbiamo la consapevolezza dei limiti di questo atteggiamento e di questa impostazione e che non sentiamo, nella nostra coscienza, i limiti stessi che ci vengono imposti. È inutile creare degli spauracchi, è inutile dire che potremmo applicare lo stesso metodo all'intera legge sindacale o alla legge sulla stampa: sì, se voi userete il vostro metodo di ostruzionismo; no, in caso di normalità.

Tutto dipende dalla premessa. Noi riteniamo, io ritengo fermissimamente, che il regime parlamentare non si salva se non si accetta la procedura normale, cioè se non si rinuncia all'ostruzionismo. Non è vero che l'ostruzionismo sia lecito! È spiegabile in qualche caso estremo, ma è sempre un qualche cosa di rivoluzionario, contro l'ordine della Camera.

Ora, chi si assume la responsabilità di applicare rivoluzionariamente questo metodo, si trova ad imporre una alternativa: o la resa, la capitolazione (il che vuol dire l'indebolimento del regime parlamentare e l'annullamento del criterio democratico) oppure la resistenza, una resistenza che può anche assumere delle forme straordinarie, purché sia fondata su un principio di fiducia, su un principio essenzialmente democratico.

Voi dite: dov'è questo limite? Chi può tirare una linea per impedire lo scivolamento su quel piano inclinato? Rispondo: quando vi saranno delle regole; e l'esperienza gioverà anche per porre delle norme nel futuro regolamento, perché spero che si trarranno da questa esperienza i dovuti ammaestramenti».

Le ragioni di lungo periodo colte già da Dossetti, Bachelet, Mortati e Scoppola

La ricostruzione di quanto è maturato in questa legislatura, e che legittima pienamente l'intento di chiudere in un triennio questo lavoro di (parziale) ammodernamento istituzionale, sarebbe però ancora parziale se non ci rendesse conto di quanto questi problemi fossero ormai maturi e incancreniti da decenni. Ovviamente su molti aspetti concreti delle soluzioni individuate nei testi all'esame delle Camere si può certo opinare a lungo anche se, a volte, le soluzioni che astrattamente possono sembrare migliori si scontrano con la giusta esigenza, non meno importante, di allargare i consensi, di stipulare una solida intesa politica. Ad esempio tra gli studiosi è diffusa la valutazione che sarebbe stata preferibile una composizione del Senato analoga a quella tedesca, coi presidenti delle Regioni e i loro assessori, ossia con i comitati direttivi delle maggioranze regionali che sono il motore della legislazione. Difficile però proporre quel modello con consensi ampi nel momento in cui quasi tutte le Giunte sono di centrosinistra e molte ad inizio mandato.

Volendo andare a ritroso, e scavando in particolare nel patrimonio del cattolicesimo democratico, potremmo certo ripartire dalla bella intervista di Leopoldo Elia e Pietro Scoppola a Giuseppe Dossetti e Giuseppe Lazzati, pubblicata postuma dal Mulino, dalla quale si capisce bene come la rottura di governo della primavera 1947 incise profondamente in negativo sui contenuti della seconda parte rispetto alla fase iniziale della Costituente. In particolare vennero esclusi per i timori reciproci i rimedi più forti all'instabilità e alla efficacia dei Governi, vennero adottate formule proporzionali iper-speculari e la seconda Camera, anziché fungere da raccordo con le nuove Regioni, fu impostata anch'essa come un elemento di garanzia tra i partiti nazionali. Dc e Pci temevano ciascuno il successivo 18 aprile dell'altro, vi era infatti, come sottolinea Dossetti in quelle pagine un «eccesso di paura dell'altro» che ha generato «una parte strutturale che è stata quella che è stata», con un «carattere eccessivamente garantista» dal bicameralismo paritario alla debolezza del Governo, a cui si rassegnarono anche i costituenti democristiani, nonostante il sostegno nella fase precedente all'ordine del giorno Perassi che accettava il sistema parlamentare a patto di combatterne le degenerazioni assembleari, vedendo dietro a un esecutivo forte il timore concreto di un Fronte popolare vincente sotto una possibile leadership di Nenni, con un'elezione a suffragio universale del vertice del Governo.

Un giudizio analogo, proprio su queste colonne di Coscienza lo proponeva Vittorio Bachelet nel 1954 quando, commentando alcuni convegni sullo Stato, proponeva la constatazione di «una notevole differenza fra la parte programmatica della nostra Costituzione e quella che stabilisce ed ordina le strutture costituzionali dello Stato: innovatrice e talora audace la prima, ferma la seconda a un'impostazione di tipo pre-fascista, e inadeguata quindi alle funzioni nuove dello Stato». Il punto ben colto da Bachelet era l'espansione dello Stato sociale che stava avvenendo in presenza di condizioni di debolezza e instabilità dei governi dopo il mancato scatto della legge maggioritaria a differenza della parallela costruzione del welfare in Inghilterra con Governi di legislatura.

Costantino Mortati, in modo analogo, nei primi anni ‘70 distingueva l'equilibrio alto e «particolarmente felice» della prima parte della Carta dalla debolezza della seconda, identificando i problemi principali nella possibilità di eludere le scarne norme di razionalizzazione del rapporto di fiducia anche a causa del sistema proporzionale che ormai «malamente» incideva sul sistema dei partiti e nella creazione di un Senato come «inutile doppione» della Camera. Esattamente i nodi su cui insistono le due riforme oggi al nostro esame e su ci si è esercitati anche negli anni successivi.

Basti pensare, negli anni successivi, alla felice espressione sintetica di Roberto Ruffilli, «il cittadino come arbitro» per la legittimazione diretta dei governi da parte degli elettori, su cui si innestò poi il movimento referendario degli anni '90 col grande protagonismo dell'associazionismo cattolico democratico, e alla nuova attenzione per i temi del regionalismo, sfociata nella parziale riforma del Titolo quinto che ha mantenuto una separatezza tra i legislatori regionali e il Parlamento nazionale rimasto immutato producendo quindi un contenzioso abnorme davanti alla Corte costituzionale.

Pietro Scoppola nella sua Repubblica dei partiti, il libro che ha segnato la base culturale del traghettamento culturale del cattolicesimo democratico verso l'attiva azione per le riforme elettorali e costituzionali, ha mostrato come la solidarietà nazionale nella versione morotea sia stato l'ultimo tentativo di riprendere le fila del lavoro interrotto nel 1947, per costruire una maggiore base di condivisione in modo da rendere praticabile l'alternanza senza traumi. Scoppola ha rilevato come dopo il fallimento del primo sistema dei partiti che è imploso in questa contraddizione, promettendo riforme non realizzate sin dalla commissione Bozzi, si sia poi trovata una leva di cambiamento nel movimento referendario per le riforme elettorali, in grado di avviare la transizione ma non di poterla chiudere coerentemente da solo. Un deficit che è proseguito anche coi successivi assestamenti del sistema dei partiti. Alla transizione incompiuta sulla forma di governo, tra democrazia immediata fondata sui cittadini come arbitri e democrazia mediata dai partiti dopo il voto (per rifarci alla nota immagine del grande studioso Maurice Duverger, proveniente dal cattolicesimo democratico francese e con cui il cammino del nostro associazionismo tato interagì negli anni ‘90) si è poi aggiunto anche quella incompiuta sul tipo di Stato. Aver riformato il Titolo quinto nel 2001 senza portare i legislatori regionali nel Senato ha spinto Stato e Regioni ad aumentare il volume del contenzioso presso la Corte, che negli ultimi anni copre in modo abnorme circa la metà del lavoro di quest'ultima, senza tendere a diminuire.

La posta in gioco e i termini della scelta

Al di là degli aspetti tecnici e dettagliati delle questioni sono ormai pertanto chiare le alternative in gioco. Sul sistema elettorale la scelta fondamentale è spettata interamente al Parlamento, tra un sistema in cui gli elettori decidono anche sul Governo designando un chiaro vincitore, come fa la nuova legge elettorale chiamata "Italicum", e il mantenimento di uno status quo, il sistema uscito dal ritaglio della Corte, che avrebbe obbligato a Grandi coalizioni eterogenee almeno per un lungo periodo. Tertium non datur.

Sulla riforma costituzionale il problema è se si ritiene preferibile rischiare di andare al voto con due Camere entrambe decisive per il Governo, con risultati potenzialmente divaricanti e non in grado di interagire coi legislatori regionali, perpetuando quindi il grave contenzioso di fronte alla Corte costituzionale. Si tratta di una riforma condivisa nell'elaborazione, anche se potrebbe non essere ugualmente condiviso il voto finale dei parlamentari. A quel punto, però, la parola sarà ai cittadini nel referendum e sarà importante vedere quale visione condividano gli elettori. Sarebbe pertanto errato fermarsi prima perché la vera prova sulla maturazione nel Paese di questi temi a lungo sollevati senza essere risolti sarà comunque affidata al giudizio dei cittadini arbitri, altrimenti impediti a scegliere. Soprattutto quando le ragioni per cui il consenso iniziale era stato dato e poi ritirato non hanno niente a che fare con contenuti specifici dei testi. L'intesa sui contenuti non era espressione di una dittatura della maggioranza, né lo sarebbe il voto positivo degli elettori. La resa sarebbe invece, come segnalava De Gasperi nel 1953, un'inaccettabile rassegnazione a un diktat minoritario e immotivato, le cui conseguenze ricadrebbero di nuovo sul Paese. Anche in questo ambito il peggior peccato sarebbe quello di omissione.