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Eppure le periferie ci salveranno

07 Marzo 2016

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di BEPPE ELIA

Il dolore per la morte di due nostri concittadini nel confuso campo di battaglia libico ha nuovamente attizzato il fuoco di un contrasto politico interno che si espande ormai senza alcun freno verbale, ed ha alimentato un sentimento di paura e di chiusura all'interno dei nostri confini. L'Europa si sta frantumando, come un gigante dai piedi d'argilla, sotto la pressione di migliaia di uomini, donne, bambini provenienti dalla Siria, dall'Iraq, dall'Afghanistan, e da una miriade di paesi africani. Ormai neppure la sottile (e spesso disumana) distinzione fra profughi e immigrati "economici" viene più evocata, di fronte alle moltitudini che si accampano presso recinti presidiati.

Possiamo riconoscere vere anche oggi le parole di Max Frisch (lo ricorda Lucio Caracciolo in uno suo lucidissimo editoriale comparso recentemente su Limes), il quale, commentando la migrazione, nel dopoguerra, degli italiani in Svizzera per svolgere i lavori più umili, affermava: "Volevamo braccia, sono arrivati uomini": umiliati nella loro pretesa elementare di essere considerati tali, volti da guardare, mani da stringere, corpi da curare, cuori da consolare, persone con cui colloquiare.

Respingere, allontanare, contrastare sono i verbi della nuova Europa, preoccupata di mantenere la sua quiete quanto impaurita dei venti di guerra che ormai soffiano alle sue porte. Eppure a Berlino l'Orso d'oro viene consegnato ad un film che celebra Lampedusa e suoi abitanti, estrema periferia accogliente e materna di un continente senza anima e senza intelligenza. 

Forse proprio le periferie, delle nostre città, del mondo, della cultura, ci salveranno: aprirci ad esse non è solo un gesto di misericordia, ma il solo modo per cogliere quell'umanità nascosta che ancora vive, a dispetto di ogni egoismo e grettezza, e che ci potrà liberare dalla inconcludenza  dei potenti e dei pavidi.