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INCONTRO AL RISORTO "Benedetto colui che viene nel nome del Signore"

28 Marzo 2015

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CLICCA QUI PER LEGGERE IL RACCONTO DELLA PASSIONE DALLA LITURGIA DELLA DOMENICA DELLE PALME - ANNO B (MC 14,1-15,47)

La domenica delle Palme segna l'ingresso nella settimana santa. Benché i suoi accenti siano già segnati dall'approssimarsi dei giorni bui della passione, i sentimenti che essa suscita nella comunità cristiana anticipano quelli della risurrezione. Gioia e dolore si intrecciano perciò in questo giorno molto particolare, e non si fa a tempo a respirare la leggerezza dell'una che subito si affaccia la gravità dell'altro. Specchio in fondo della nostra vita, che intreccia tempi di armonia, in cui sembra di aver trovato tutte le risposte, ad altri in cui la tristezza bussa alla porta e frantuma molte certezze. Ogni giorno segna un nuovo inizio che va vissuto con coraggio.

Il preludio evangelico è l'ingresso a Gerusalemme. Si sentono grida di gioia e gli Osanna che accompagnano il maestro, salutato come Benedetto colui che viene nel nome del Signore. È il momento del trionfo, ma il modo in cui fa il suo ingresso nella città santa non ha niente di quella scenografia che avremmo immaginato per l'investitura di un re. Egli non giunge alla testa di qualche esercito, con i nemici sconfitti e umiliati alle proprie spalle, bensì seduto su un puledro d'asina. Non è neanche di sua proprietà, lo prende a prestito, raccomandando ai discepoli di riconsegnarlo subito dopo ai suoi legittimi proprietari.

È il ritratto del re pacifico: Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d'asina (Zac 9,9). La folla che lo circonda non agita spade, ma fronde tagliate dagli alberi circostanti. Gettano per strada i mantelli, segno di riconoscimento della regalità, ma anche del dono di se stessi, come atto di resa al regno di pace che questo strano re senza corona è venuto ad inaugurare. La liturgia ha dato una forma plastica a quest'avvenimento, con la benedizione dei rami di ulivo o di palme intrecciate che ci si usa scambiare in segno di pace.

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La scena è così festosa che niente lascia immaginare ciò che da lì a poco sarebbe avvenuto. Entrati processionalmente in Chiesa, si ascolta così il racconto della passione. Quest'anno secondo Marco. È il documento più antico, cui attingeranno Matteo e Luca. Tenendo conto della brevità dell'intero testo, lo spazio che l'evangelista concede alla passione è tale da aver fatto formulare la tesi che il suo Vangelo non è altro che un'ampia introduzione a essa. La centralità emerge anche dalla sobrietà con cui egli parla della risurrezione. Marco conosce quindi lo scandalo della croce e la mette al centro, tracciando una storia drammatica del Cristo.

L'invito ai lettori di ieri e di oggi è di abbandonare le proprie aspettative riguardo alla vera identità del Cristo, e di leggere le cose con gli occhi della fede. Proprio l'atto della fede sarà il climax dell'intero racconto. In un mondo di conquiste, ma che spesso se ne ubriaca al punto da passare distrattamente dinanzi al volto di chi soffre, la theologia crucis diventa il cuore del messaggio cristiano. La fede produce l'amore e per questo si dà la delicata scena dell'unzione di Betania: gesto d'amore di una donna che resta anonima, contrapposta al prurito dei discepoli che, con la scusa dei poveri, si mettono a contare i soldi e si scordano della croce.

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Arriva la "cena". Gli amici sono per l'ultima volta radunati intorno alla stessa tavola. Gesù istituisce l'eucaristia, contenendo in un rito il mistero della nuova pasqua che da lì a poco si sarebbe compiuto nella sua carne. Il donatore si fa dono, e pronuncia parole cariche di significato: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue, sangue che non sarà sparso invano perché seme di futura alleanza. Qui pure, però, compare il rovescio: uno di voi mi, che mangia con me, mi tradirà. La domanda che va di bocca in bocca, sono forse io?, ci invita a non metterci nella comoda posizione degli accusatori, ma di quelli che si interrogano.

Marco ha una scrittura cruda, asciutta, accompagnata da immagini improvvise e originali, che rendono il suo stile quasi immediatamente riconoscibile. Scrive per il popolo e ha un solo scopo: parlare di Gesù, con il desiderio di contagiare i lettori dello stesso fascino che questa figura ha suscitato in lui. Attento all'aspetto umano, dà una rappresentazione del Getsemani ad alta tensione emotiva: Gesù sente paura e angoscia, confida ai discepoli di essere triste fino alla morte, desidera il loro appoggio, si getta a terra cercando conforto nella preghiera e si rivolge al Padre chiamandolo Abbà. La Chiesa dei discepoli è laggiù, sconfitta dal sonno.

Ormai è solo. Lui e la sua passione. Fortificato dalla presenza del Padre la decisione è presa. D'ora in poi l'evangelista ce lo presenta protagonista solitario dell'intera narrazione. Non sono gli eventi a sopraffarlo, ma è lui a decidere di lasciarsi dominare da essi. Compare il verbo teologico più pregnante della passione, riportato anche dagli altri evangelisti: "consegnare" (paradidónai). Il Figlio dell'uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. È il verbo dell'abbandono, e della libertà, perché non sono gli altri a prenderlo, ma è lui che si dona. Ed è il verbo dell'amore, perché solo chi ama si dà gratuitamente, senza opporre resistenza.

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Trenta monete e un bacio bugiardo possono sbarrare la porta a un'amicizia infinita. Inizia il processo-farsa, dove la sentenza è già pronunciata. Ci sono tutti: i capi, gli speculatori, i sacerdoti e i falsi testimoni. Citano le sue parole dandone un'interpretazione deformata. Quando l'orda si scatena non c'è modo di fermarla: l'innocente diventa colpevole e il colpevole è dichiarato innocente. Nelle tenebre niente ha più chiarezza. È l'ora del caos. Padrone degli eventi, Gesù non si nasconde e dichiara la sua identità. Ma è la bestemmia finale. Ora tutto è legittimato. Avete udito la bestemmia; che ve ne pare? Tutti sentenziarono che era reo di morte.

L'unico discepolo svegliatosi dal sonno fu Pietro. Ma com'è bruciante la scena del suo rinnegamento. Ce lo saremmo aspettato da tutti, ma da lui no! Il pescatore così appassionato ed elettrizzante, la roccia della fede. E invece eccolo ingoiato lui pure dalle tenebre. Che tristezza sentirgli dire di non conoscere Gesù: non una, non due ma tre volte. Non lo conosco, non lo conosco, non lo conosco. E subito un gallo cantò. Il giorno stava spuntando nel cielo di un'alba nuova, ma non nel cuore di Pietro, che scoppiò in pianto. Questo suo pianto amaro, però, ce lo fa amare di nuovo, uomo così simile a noi, forti e deboli al tempo stesso.

Condannato dal potere religioso, non resta che l'approvazione del potere politico. Che strana alleanza e che inaspettato confronto: il maestro di una polverosa città della Galilea e il rappresentante dell'impero allora più forte. Il re della pace di fronte al potere assoluto. La logica politica è il baratto: quant'è il prezzo di una poltrona? Alla fine Pilato si arrende alla ragione di Stato, volendo dare soddisfazione alla folla, rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso. Arrivano gli esecutori, quelli della truppa, che obbediscono sempre quando si tratta di compiere un massacro.

Prima, però, inscenano una pagliacciata vergognosa. Lo vestono di porpora, gli mettono una corona di spine sul capo, lo insultano, gli sputano addosso, lo scherniscono, lo spogliano. Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi (Is 50,6). Dolce figlio dell'uomo, non osiamo nemmeno guardarti per come ti hanno ridotto! Dolci milioni di figli degli uomini che subiscono la stessa tortura! Dolce e amabile bellezza, quanto dolore dà vederti così sporcata! Niente è più bello dell'amore, ed è triste vedere in quanto fango possiamo seppellirti.

Inizia la salita al luogo del Golgota e poi l'atto finale, con l'odore della polvere e le schegge di legno che saltano sotto i rumori sordi di un martello che inchioda le ali di una carne ormai ridotta in cenere. Marco ci dà solo una parola del crocifisso, alle tre, Gesù gridò a gran voce: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Non è solo una preghiera, forse la citazione del Salmo 22, ma il grido di una preghiera, che scaturisce da chi subisce l'ultima ingiustizia del male, che è di cancellare anche la vicinanza del Padre. È la preghiera che urla, eco di tante crocifissioni che giungono al limite più oscuro: l'esperienza del silenzio di Dio.

Anche questo egli ha voluto condividere, ed ora non c'è niente di ciò che noi possiamo sperimentare che non sia anche suo. Ma il Padre non è assente. La sua eclissi è il giudizio del mysterium iniquitatis. È un dialogo silenzioso, in cui comprendiamo che se ci ha amato al punto da consentire che il "Figlio prediletto" fosse consegnato alle tenebre, darà anche tutto il perdono necessario per ritrovare la nostra dignità. Ed è un richiamo alla responsabilità, perché facciamo tutto quello che è in nostro potere per eliminare il male che provoca l'urlo della preghiera. Alla fine, Gesù, dando un forte grido, spirò.

***

Il velo del tempio che si squarcia dice l'apertura della nuova via. La divisione dei popoli rappresentata dal tempio è sostituita dalla croce che è riconciliazione, a tutti i livelli. Dopo il sonno, le fughe e i tradimenti giunge finalmente la voce della Chiesa, che qui nasce insieme alla confessione di fede del centurione (un pagano): Davvero quest'uomo era figlio di Dio! Apertosi all'insegna di questo titolo cristologico, il vangelo di Marco si chiude idealmente con esso. In mezzo ci ha fatto assistere al racconto di una vita rivelata in tutta la sua originale paradossalità. Ora che il destino di croce si è compiuto, il velo è definitivamente tolto.

Marco ha però altre due istantanee su cui farci riflettere: cita alcune donne, le uniche a essere presenti in un momento tanto importante della vita di Gesù, mentre i discepoli maschi si erano eclissati, e racconta la sepoltura. Con mani pietose, Giuseppe di Arimatea depone il corpo morto del maestro in una tomba, poi fece rotolare una pietra all'entrata del sepolcro. Di nuovo vengono citate due donne, che scrutano il luogo a distanza. Qualcosa di caldo sta però già bruciando dietro quel sigillo. Una fiamma si è accesa e un avvenimento si sta preparando nel cuore della terra, un avvenimento sconvolgente, che porterà a cantare un grido di vittoria.

DON GIOVANNI TANGORRA