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Aldo Moro: ...in aderenza alla realtà e per dominare con intelligenza gli avvenimenti…

27 Dicembre 2013

• La frase del volantino “in aderenza alla realtà e per dominare con intelligenza gli avvenimenti” è contenuta nell’articolo di Aldo Moro non finito di correggere e trovato in via Fani il 16 marzo del 1978 ed è il titolo di una collana dell’Accademia di studi storici a lui intitolata. L’articolo è pubblicato in un volume che raccoglie i testi di Moro dal 1959 al 1978 intitolato “L’intelligenza e gli avvenimenti”.• C’è una sconfinata bibliografia su Aldo Moro. Non sarò certo io a fare una analisi esaustiva e completa della vita e dell’intensa attività politica di Moro. Ma questa sera la mia intenzione è quella di proporvi alcuni temi per poter discutere e riflettere insieme su fatti accaduti nel passato per cercare di capire, forse, un po’ del presente. Quello che vi propongo è un percorso di lettura che parte da un tema centrale  che si dipana attraverso la storia. • La crisi della democrazia e del sistema politico italiano. Il pensiero di Moro assume un significato di interesse generale perché è collegato con la crisi del sistema parlamentare del XX secolo. Tale sistema ha svolto efficacemente i suoi compiti nei momenti di stabilità ma ha rivelato la propria inefficienza nei momenti di crisi sociale ed economica. Moro credeva nell’idea dello Stato come un processo come un qualcosa di completamente in fieri, un organismo sensibile ai mutamenti, che eccezion fatta per il principio del governo rappresentativo, non fosse un dato fissato in eterno. Questo concetto è di importanza cruciale in Moro, anzi mi permetto di dire che questo è il nucleo centrale del pensiero di Moro ed è chiaramente espresso nelle sue lezioni di filosofia del diritto tenute a Bari dal 1944 al 1947. Nel 1959 Moro diventa segretario della Dc. Nei discorsi pronunciati in quel periodo egli stabilì due importanti punti della sua concezione della democrazia italiana. Innanzitutto  nel suo discorso pronunciato a  Milano egli afferma che la costruzione democratica dello stato è un punto di partenza e non un punto di arrivo e che il compito della Dc era quello di costruire lo stato democratico. In secondo luogo Moro sottolineò l’esigenza di tenere presente i mutamenti che erano avvenuti nella società civile e di adeguare il sistema di rappresentanza politica a quei mutamenti. In  particolare la crisi politica di quegli anni, ossia la fine del centrismo degasperiano, segnalava a Moro la crisi dell’intero sistema della democrazia parlamentare: il problema era quello di un riconoscimento solo formale della libertà politica e dell’esigenza di fornire maggiori strumenti di rappresentanza a quelle masse che ancora non ne usufruivano. Uno dei punti di forza del fascismo era costituito infatti dalla sua capacità di mobilitare, di coinvolgere e di integrare masse di gente che non aveva mai preso parte in precedenza alla vita politica. Ovunque esistessero masse completamente al di fuori del sistema politico, il fascismo riusciva ad integrarle con discreto successo. E quindi il problema  cruciale per Moro è quello di riuscire a coinvolgere nel sistema parlamentare coloro che ne sono rimasti al di fuori. In Italia, a causa di uno sviluppo economico squilibrato, c’erano parti di popolazione, in particolare al Sud, che rimaneva al di fuori del processo politico. Negli anni ’50 questo non era soltanto un problema regionale, ma era un problema che investiva sempre più le classi lavoratrici, le masse di lavoratori dell’industria, le quali si sentivano alienate dal sistema democratico. Per questo Aldo Moro fu l’artefice, prima da segretario della Dc, poi da presidente del consiglio dal 1963 al 1968, dell’esperienza dei governi di centro-sinistra.   L’inserimento nel processo democratico non consisteva semplicemente nel far parte del Parlamento, ma si trattava di coinvolgere ed integrare i socialisti conferendo loro responsabilità di governo. Moro era quindi convinto che il processo parlamentare democratico fosse un fattore chiave e che dando a gruppi fino ad allora esclusi alcune responsabilità di governo del paese, si potesse mettere in moto la forza integratrice dello stato.  Poi ci sono due vicende politiche che illustrano bene come la visione di Moro dello Stato come processo abbia avuto reale attuazione: il problema dell’Alto Adige e quello delle zone di frontiera con la Iugoslavia. In entrambe le questioni il contributo di Moro fu decisivo: la politica fascista di centralizzazione dell’Alto Adige fu un vero fallimento e quindi il riconoscimento della minoranza etnica tedesca rientra nella concezione inclusiva ed integratrice dello Stato; la questione della definizione dei confini tra Italia e Iugoslavia venne risolta con il trattato di Osimo del 1975 e di fatto con un dare una forma giuridica ad una realtà di fatto. La Dc di Moro. Come già detto, Moro fu eletto segretario nel 1959 e il primo congresso da lui tenuto come segretario fu a Firenze lo stesso anno. Il partito, nella visione di Moro, doveva essere lo strumento attraverso il quale operare per l’allargamento della base di consenso all’ordine democratico. Mentre per Fanfani la Dc doveva essere il centro dell’organizzazione politica della società civile e lo strumento per condurre avanti la trasformazione del paese – quindi la necessità di un partito ben organizzato e disciplinato – Moro appare fin dall’inizio favorevole ad «un partito di mediazione» impegnato a favorire la circolazione delle idee. Un altro punto di differenziazione rispetto alla segreteria Fanfani riguardava il rapporto con l’opposizione di sinistra. Mentre per Fanfani occorreva condurre una politica socialmente avanzata tale corrodere poco a poco le basi del consenso ai partiti di sinistra, per Moro invece bisognava prendere atto delle diversità e attraverso un paziente dialogo arrivare alle condizioni per una intesa. E tutto questo poteva essere garantito solo avendo un partito unito, ma non appiattito, con una articolata presenza di uomini e di correnti ideali e un partito «laico» cioè autonomo dalle gerarchie ecclesiastiche per quanto riguarda l’ambito delle scelte politiche pur mantenendo e rivendicando l’originaria ispirazione cristiana del partito.• La Dc per Moro infatti non è uno strumento «religioso» a servizio degli ideali cristiani e della Chiesa, ma uno strumento «politico» di progresso e liberazione dell’uomo attraverso il metodo della libertà e della democrazia. La Dc deve essere sì un partito di ispirazione cristiana, cioè deve ispirarsi ai valori cristiani e tradurli nella realtà sociale e politica nella lotta, nel dibattito, nella gradualità e nelle incertezze proprie della vita democratica, ma ciò non comporta l’accettazione di qualsiasi ideologia confessionale: il partito di ispirazione cristiana è per Moro aconfessionale ed autonomo da qualsiasi gerarchia ecclesiastica.• Per ultimo, ma non meno importante, fu in Moro la ripresa della pregiudiziale antifascista, da lui sostenuta in sede di Costituente e l’insistenza sulla incompatibilità tra Dc e fascismo e neo fascismo, cioè tra Dc e Msi,  in contrasto con le pressioni di molti per una comune battaglia anticomunista. In questo campo la  strategia di Moro fu quella di togliere al Pci il monopolio dell’antifascismo e il suo anticomunismo fu di natura particolare, cioè non conservatore,  la sfida cioè venne lanciata sul terreno del riconoscimento delle libertà.• La «terza fase». Nel decennio 1968 - 1978 Moro non appare propriamente emarginato né dalla attività di governo (sarà più volte nominato ministro degli esteri tra il 1970 e il 1974, sarà presidente del consiglio dal 1974 al 1976) né dalla vita di partito (nel 1976 sarà presidente del consiglio nazionale della Dc), ma certamente non svolge quelle funzioni di primo piano che gli erano state affidate nel decennio precedente. Tuttavia egli gode di un suo personale e influente carisma sia sull’opinione pubblica che all’interno del partito. Negli scritti dal 1968 al 1976 Moro elabora una peculiare interpretazione della crisi della società italiana.  È una crisi insieme politica e sociale, una crisi che scuoteva soprattutto il mondo giovanile e che non si sarebbe potuto superare se non attraverso un decisivo mutamento della vita politica italiana. Moro era stato, all’interno del suo partito, il primo a cogliere il significato non transitorio dei cambiamenti in atto ed in particolare dei fermenti che agitavano nel 1968 i movimenti studenteschi e giovanili. In particolare nei suoi scritti egli analizzava la situazione nuova della vita sociale e politica e il crescente distacco tra società civile e politica. In questo contesto si inserisce l’approccio al Pci. La nuova crisi istituzionale derivante dal logoramento dei governi del centrosinistra e dalla significativa erosione dei consensi che ebbe il Psi nelle elezioni del 1976, l’avanzata del Pci, imponevano una rifondazione delle istituzioni ampliando le basi del consenso allo stato democratico, isolando a sinistra coloro che pensavano che solo con la lotta armata si potesse cambiare la società italiana. Il dialogo con il Pci doveva avvenire favorendo al suo interno la rottura con  l’esperienza sovietica, in modo tale da acquisire completamente i comunisti italiani alla democrazia. Berlinguer dall’altra parte era fortemente preoccupato delle derive totalitarie del Cile e della Grecia.  Quello che Moro voleva evitare era il ripiegamento della Dc su posizioni conservatrici, una Dc condannata a governare, non in quanto non fosse da lui ritenuta degna di governare, ma perché essere costretti a governare sempre finiva per appesantire il partito, per diminuirne l’agilità di movimento, per aggravare la piaga del clientelismo, per mortificare i fermenti innovatori emergenti dalla società. Quella che Moro voleva superare era una democrazia bloccata o quello che Giorgio Galli ha chiamato con una espressione ormai diventata famosa «il bipartitismo imperfetto»: bipartitismo, perche vede il prevalere di due grandi partiti, la Dc e il Pci; imperfetto perché uno solo era legittimato a governare.• Il 9 maggio 1978, giorno del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro costituisce di fatto una data periodizzante: il processo avviato da Moro subisce un brusco arretramento. Senza Moro e solo con Andreotti l’avvicinamento dei due massimi partiti italiani assume connotati negativi per l’opinione pubblica: l’esperienza viene bollata come mero consociativismo, aumentava il malcontento all’interno dei due partiti.  L’esperienza dei governi di solidarietà nazionale che prevedevano la non sfiducia da parte del Pci ai governi a guida democristiana si interruppe  nel  1979. Nella Dc torna alla ribalta il vecchio gruppo dirigente e con il congresso tenutosi a Roma nel 1980, che vedrà l’elezione di Piccoli alla segreteria e Forlani alla presidenza del consiglio nazionale, il rapporto dialettico con il Pci si chiude definitivamente (nel dibattito congressuale pesò come un macigno l’invasione sovietica dell’Afganistan così come il giudizio negativo di Kohl su una possibile riapertura a sinistra sostenuta invece da Zaccagnini). Così si aprirà un nuovo periodo nella storia della democrazia italiana.